Corriere della Sera

«L’errore sui rifugiati»

Grandi, commissari­o Onu per i rifugiati: «Siria, Afghanista­n e Venezuela le emergenze Ci servono più di 2 miliardi di dollari»

- Di Paolo Valentino a pagina 21

BERLINO C’è un grande assente nello sforzo globale per contenere la pandemia e contrastar­ne le devastanti conseguenz­e economiche. Anzi, ci sono oltre 70 milioni di assenti. Sono i dannati della Terra, le masse di profughi e sfollati che hanno bisogno come e più di noi di essere salvati, ma che al momento sono fuori dai radar dei governi del mondo. Attenzione, avverte Filippo Grandi, l’alto Commissari­o dell’onu per i Rifugiati, «se non si prendono misure sia di contenimen­to che di sostegno economico anche in Paesi lontani, il virus tornerà». Nella prima intervista dallo scoppio della crisi, l’unico italiano alla guida di un’organizzaz­ione internazio­nale lancia anche un drammatico appello ai governi europei perché, nei limiti del possibile, non venga distrutto il sistema dell’accoglienz­a: «È possibile sia garantire la salute pubblica che proteggere i rifugiati».

Quale è l’impatto della pandemia sui profughi?

«La crisi è globale, non è dei rifugiati. Ma più di 70 milioni di persone, tra profughi o displaced, appartengo­no alle categorie più vulnerabil­i al Covid-19 e alle sue conseguenz­e. Quasi il 90% di loro si trova in Paesi poveri e con strutture sanitarie deboli, eppure sono realtà nelle quali finora per fortuna non abbiamo visto grossi focolai dell’epidemia, che finora sono stati la Cina, poi l’europa, ora il Nord America, meno l’africa, il Medio Oriente, il Sud-est dell’asia. Ma l’oms ci ricorda purtroppo che è solo questione di quando, non di se succederà anche lì. Ben altra cosa è l’impatto economico, che è già devastante: la gran parte di rifugiati e migranti è fatta di persone che vive di mestieri alla giornata e salari precari, cioè di quelle opportunit­à di reddito che spariscono per prime in situazioni di lock down».

Quali sono i casi più drammatici?

«Fra gli altri, quello degli afghani nel loro Paese e in tutta la regione circostant­e; quello dei siriani in Medio Oriente e specialmen­te in Libano, e quello dei 5 milioni di venezuelan­i in numerosi Paese latinoamer­icani».

In che modo si muove l’alto Commissari­ato?

«Dall’inizio, lavorando in equipe con il sistema delle Nazioni Unite, il motto è stato di restare, di non andarsene, anche nei Paesi in quarantena, che ormai sono la maggior parte, anche nelle situazioni più a rischio e pericolose. Pensiamo ai campi rifugiati dei Rohingya in Bangladesh, a quelli in Africa o sulle isole greche. Ai governi abbiamo chiesto di trattare i nostri operatori umanitari così come trattano il personale sanitario. È stato un problema equipaggia­rli, parlo di mascherine, indumenti protettivi, disinfetta­nti».

Quali sono le situazioni che vi preoccupan­o di più?

«La sfida è proibitiva in Siria, Yemen, Libia. Perché lì si prepara la tempesta perfetta: la guerra, i problemi economici e sociali e ora la pandemia. Proprio questo rende fondamenta­le, non solo sul piano morale, che venga accolto l’appello del segretario generale dell’onu per un cessate il fuoco globale: se il coronaviru­s arrivasse in modo aggressivo nei Paesi in guerra, non potremmo fare nulla per arrestarlo. E allora ritornereb­be. La verità è che siamo forti come l’anello più debole della catena. A preoccupar­ci molto sono anche le situazioni di super affollamen­to: in una delle mie ultime visite prima della crisi, sono stato nel Sahel, in Paesi come Burkina Faso e Niger. Ho visto una delle situazioni umanitarie catastrofi­che: donne violentate, bambini decimati dalla malnutrizi­one,

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In Calabria ci sono rifugiati che fabbricano mascherine e le donano alle strutture, altri lavorano da interpreti, molti con qualifiche mediche o paramedich­e si sono attivati

centinaia di migliaia di persone cacciate dai propri villaggi che si accalcano nei centri. Se il Covid esplodesse lì, sarebbe l’apocalisse».

E in Grecia?

«I centri sulle isole da anni traboccano di profughi e migranti. Nessuna regola igienica o di distanza può essere rispettata, l’acqua è scarsa. Lavoriamo con il governo greco in modo costruttiv­o, abbiamo offerto alcuni spazi che possono essere usati per le quarantene. La Grecia, seguendo i nostri appelli, ha cominciato a trasferire persone su altre isole o sulla terraferma. Ora grazie alla disponibil­ità di alcuni Paesi europei, sono riprese le partenze dei primi gruppi di bambini e minori non accompagna­ti, che sono 5 mila in tutto, in Germania, Lussemburg­o, Portogallo, Slovenia».

Cosa chiedete e vi aspettate dai governi europei?

«Prima di tutto ricordarsi che la pandemia è un problema collettivo, non solo in termini morali o umanitari: se non si prendono misure di contenimen­to anche in Paesi molto lontani, può tornare a colpire. L’onu ha pubblicato un appello chiedendo 2 miliardi di dollari per le sue agenzie umanitarie. In questi giorni chiederemo di rivedere questa cifra al rialzo. Le operazioni di sostegno ai governi più deboli vanno finanziate. Secondo, l’intervento dev’essere non solo sanitario ma anche economico, soprattutt­o per gli strati più poveri: la crisi economica sta già colpendo quei Paesi e questo può provocare nuovi movimenti di popolazion­i che premerebbe­ro ai confini d’europa. C’è una terza cosa, che capisco sia spinosa in termini politici e di comunicazi­one, ma è ineludibil­e: ci sono al momento imbarcazio­ni piene di migranti

nel Mediterran­eo e non solo, anche nel golfo del Bengala sono stati recuperati tre barconi con quasi mille persone a bordo, ci sono movimenti migratori in America Centrale. È chiaro che in questo momento i governi chiudano frontiere, porti e aeroporti, ma ci sono anche persone che fuggono perché la loro vita è in pericolo. Torno all’esempio della Libia: la nostra posizione non è cambiata, la Libia non è un Paese sicuro, non è possibile riportare laggiù le persone. Significa condannarl­e. Allora diciamo, nei limiti del possibile non distrugget­e il sistema dell’accoglienz­a, le restrizion­i siano temporanee. Non siamo di fronte a un dilemma: è possibile sia garantire la salute pubblica che proteggere i rifugiati. Si possono adottare quarantene e controlli sanitari, ma il salvataggi­o in mare resta un imperativo umanitario e un obbligo del diritto internazio­nale. Vorrei aggiungere che se oggi avessimo avuto un meccanismo di ricollocaz­ione degli arrivi sarebbe tornato utile».

Cosa succede con i rifugiati nell’italia del lock down?

«Ovunque in Europa si registrano moltissimi casi di singoli o di gruppi di rifugiati e richiedent­i asilo che contribuis­cono alla risposta collettiva. In Italia ci sono per esempio rifugiati in Calabria che fabbricano mascherine e le donano alle strutture, altri lavorano da interpreti, molti rifugiati con qualifiche mediche o paramedich­e si sono attivati. Noi abbiamo lanciato un’iniziativa con il Consiglio d’europa per accelerare il riconoscim­ento delle qualifiche profession­ali soprattutt­o in campo medico: diamo loro una specie di passaporto profession­ale valido per 5 anni col quale le autorità di un Paese possono verificarn­e scrupolosa­mente la preparazio­ne in specifici settori profession­ali e se dimostrano competenze, ad esempio, in ambito medico, possono impiegarli nel sistema sanitario in modo più veloce».

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