«L’errore sui rifugiati»
Grandi, commissario Onu per i rifugiati: «Siria, Afghanistan e Venezuela le emergenze Ci servono più di 2 miliardi di dollari»
BERLINO C’è un grande assente nello sforzo globale per contenere la pandemia e contrastarne le devastanti conseguenze economiche. Anzi, ci sono oltre 70 milioni di assenti. Sono i dannati della Terra, le masse di profughi e sfollati che hanno bisogno come e più di noi di essere salvati, ma che al momento sono fuori dai radar dei governi del mondo. Attenzione, avverte Filippo Grandi, l’alto Commissario dell’onu per i Rifugiati, «se non si prendono misure sia di contenimento che di sostegno economico anche in Paesi lontani, il virus tornerà». Nella prima intervista dallo scoppio della crisi, l’unico italiano alla guida di un’organizzazione internazionale lancia anche un drammatico appello ai governi europei perché, nei limiti del possibile, non venga distrutto il sistema dell’accoglienza: «È possibile sia garantire la salute pubblica che proteggere i rifugiati».
Quale è l’impatto della pandemia sui profughi?
«La crisi è globale, non è dei rifugiati. Ma più di 70 milioni di persone, tra profughi o displaced, appartengono alle categorie più vulnerabili al Covid-19 e alle sue conseguenze. Quasi il 90% di loro si trova in Paesi poveri e con strutture sanitarie deboli, eppure sono realtà nelle quali finora per fortuna non abbiamo visto grossi focolai dell’epidemia, che finora sono stati la Cina, poi l’europa, ora il Nord America, meno l’africa, il Medio Oriente, il Sud-est dell’asia. Ma l’oms ci ricorda purtroppo che è solo questione di quando, non di se succederà anche lì. Ben altra cosa è l’impatto economico, che è già devastante: la gran parte di rifugiati e migranti è fatta di persone che vive di mestieri alla giornata e salari precari, cioè di quelle opportunità di reddito che spariscono per prime in situazioni di lock down».
Quali sono i casi più drammatici?
«Fra gli altri, quello degli afghani nel loro Paese e in tutta la regione circostante; quello dei siriani in Medio Oriente e specialmente in Libano, e quello dei 5 milioni di venezuelani in numerosi Paese latinoamericani».
In che modo si muove l’alto Commissariato?
«Dall’inizio, lavorando in equipe con il sistema delle Nazioni Unite, il motto è stato di restare, di non andarsene, anche nei Paesi in quarantena, che ormai sono la maggior parte, anche nelle situazioni più a rischio e pericolose. Pensiamo ai campi rifugiati dei Rohingya in Bangladesh, a quelli in Africa o sulle isole greche. Ai governi abbiamo chiesto di trattare i nostri operatori umanitari così come trattano il personale sanitario. È stato un problema equipaggiarli, parlo di mascherine, indumenti protettivi, disinfettanti».
Quali sono le situazioni che vi preoccupano di più?
«La sfida è proibitiva in Siria, Yemen, Libia. Perché lì si prepara la tempesta perfetta: la guerra, i problemi economici e sociali e ora la pandemia. Proprio questo rende fondamentale, non solo sul piano morale, che venga accolto l’appello del segretario generale dell’onu per un cessate il fuoco globale: se il coronavirus arrivasse in modo aggressivo nei Paesi in guerra, non potremmo fare nulla per arrestarlo. E allora ritornerebbe. La verità è che siamo forti come l’anello più debole della catena. A preoccuparci molto sono anche le situazioni di super affollamento: in una delle mie ultime visite prima della crisi, sono stato nel Sahel, in Paesi come Burkina Faso e Niger. Ho visto una delle situazioni umanitarie catastrofiche: donne violentate, bambini decimati dalla malnutrizione,
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In Calabria ci sono rifugiati che fabbricano mascherine e le donano alle strutture, altri lavorano da interpreti, molti con qualifiche mediche o paramediche si sono attivati
centinaia di migliaia di persone cacciate dai propri villaggi che si accalcano nei centri. Se il Covid esplodesse lì, sarebbe l’apocalisse».
E in Grecia?
«I centri sulle isole da anni traboccano di profughi e migranti. Nessuna regola igienica o di distanza può essere rispettata, l’acqua è scarsa. Lavoriamo con il governo greco in modo costruttivo, abbiamo offerto alcuni spazi che possono essere usati per le quarantene. La Grecia, seguendo i nostri appelli, ha cominciato a trasferire persone su altre isole o sulla terraferma. Ora grazie alla disponibilità di alcuni Paesi europei, sono riprese le partenze dei primi gruppi di bambini e minori non accompagnati, che sono 5 mila in tutto, in Germania, Lussemburgo, Portogallo, Slovenia».
Cosa chiedete e vi aspettate dai governi europei?
«Prima di tutto ricordarsi che la pandemia è un problema collettivo, non solo in termini morali o umanitari: se non si prendono misure di contenimento anche in Paesi molto lontani, può tornare a colpire. L’onu ha pubblicato un appello chiedendo 2 miliardi di dollari per le sue agenzie umanitarie. In questi giorni chiederemo di rivedere questa cifra al rialzo. Le operazioni di sostegno ai governi più deboli vanno finanziate. Secondo, l’intervento dev’essere non solo sanitario ma anche economico, soprattutto per gli strati più poveri: la crisi economica sta già colpendo quei Paesi e questo può provocare nuovi movimenti di popolazioni che premerebbero ai confini d’europa. C’è una terza cosa, che capisco sia spinosa in termini politici e di comunicazione, ma è ineludibile: ci sono al momento imbarcazioni piene di migranti
nel Mediterraneo e non solo, anche nel golfo del Bengala sono stati recuperati tre barconi con quasi mille persone a bordo, ci sono movimenti migratori in America Centrale. È chiaro che in questo momento i governi chiudano frontiere, porti e aeroporti, ma ci sono anche persone che fuggono perché la loro vita è in pericolo. Torno all’esempio della Libia: la nostra posizione non è cambiata, la Libia non è un Paese sicuro, non è possibile riportare laggiù le persone. Significa condannarle. Allora diciamo, nei limiti del possibile non distruggete il sistema dell’accoglienza, le restrizioni siano temporanee. Non siamo di fronte a un dilemma: è possibile sia garantire la salute pubblica che proteggere i rifugiati. Si possono adottare quarantene e controlli sanitari, ma il salvataggio in mare resta un imperativo umanitario e un obbligo del diritto internazionale. Vorrei aggiungere che se oggi avessimo avuto un meccanismo di ricollocazione degli arrivi sarebbe tornato utile».
Cosa succede con i rifugiati nell’italia del lock down?
«Ovunque in Europa si registrano moltissimi casi di singoli o di gruppi di rifugiati e richiedenti asilo che contribuiscono alla risposta collettiva. In Italia ci sono per esempio rifugiati in Calabria che fabbricano mascherine e le donano alle strutture, altri lavorano da interpreti, molti rifugiati con qualifiche mediche o paramediche si sono attivati. Noi abbiamo lanciato un’iniziativa con il Consiglio d’europa per accelerare il riconoscimento delle qualifiche professionali soprattutto in campo medico: diamo loro una specie di passaporto professionale valido per 5 anni col quale le autorità di un Paese possono verificarne scrupolosamente la preparazione in specifici settori professionali e se dimostrano competenze, ad esempio, in ambito medico, possono impiegarli nel sistema sanitario in modo più veloce».