Corriere della Sera

«Le mille voci delle donne Un canto che racconta il dolore, la fatica, l’amore»

- Di Myrta Merlino* *conduttric­e La7

Ci fanno compagnia certe lettere d’amore. Parole che restano con noi. L’italia mi ha scritto. Lettere che sono voci, migliaia di voci, un coro emozionant­e di donne. Diverse, coraggiose, spaventate. Non è un lamento, è un canto. Quello che le donne mi dicono. L’ho presa così: ho potuto leggere e ascoltare il suono del nostro disagio, la ballata triste dello smarriment­o. In quel suono ci sono le storie individual­i e c’è il senso della comunità, la nuova fatica di riconoscer­e se stessi e il panico inedito dell’appartenen­za. Un panico mai vissuto.

Ci sei tu, Paola, che stai con Andrea da 43 anni e hai due figli. «Matteo 35 anni e Simone 31, solo che Matteo ormai è morto da 10 anni». Lui, però, era lì con te, in qualche modo. Andavi a trovarlo ogni giorno, gli parlavi piano, gli raccontavi ogni cosa. Fino al lockdown, fino al giorno in cui hanno chiuso il cimitero. E ora che parlano di riaperture, nessuno parla di riaprire i cimiteri. Quelli non sono una priorità, non sono un bene essenziale. E tu senti il dolore sordo di una madre a cui non è più consentito curare il suo cuore con quella strana vicinanza. «Sai Myrta cosa dice un cinico proverbio?», mi scrivi. «I dolori sono come i soldi: chi ce li ha se li tiene». È difficile spiegare. Certe giornate amare.

E ci sei tu, Ele. Tu che sei inciampata fuori tempo massimo nell’amore che non ti aspetti. Tu che ti sentivi «non più giovane e non ancora vecchia». Tu che non credevi nel diritto a essere felice. E all’improvviso l’hai incontrato e «la vita è diventata luminosa e dolce», scrivi. E adesso non sai più cos’è quell’amore che ti ha scaldato il cuore. Non sei una moglie, non sei una convivente, non sei un «congiunto». E no maledizion­e, sei solo una donna innamorata che non può rivedere il suo uomo. «Quello che provo non rientra nel Dpcm».

E se ci confondiam­o un po’. È per la voglia di capire chi non riesce più a parlare. Ma noi sappiamo rifugiarci nelle parole. E sono tante quelle scritte a me in queste settimane alla mail dilloamyrt­a@la7.it. Forti, accorate, dignitose, preoccupat­e, resilienti, addolorate. E possiamo avere paura, infilate in uno scafandro, sigillate in mascherine, occhiali, guanti. Proprio come te Silvia, che durante i turni usi scrupolosa­mente i Dpi nonostante facciano male. Tu che hai paura che solo «spostandom­i gli occhiali, la mascherina o togliendom­i il primo paio di guanti causa dolore insopporta­bile al viso e alle mani, io possa infettarmi e di conseguenz­a infettare altre perla,

Le mail

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sone» e che la sera quando torni a casa stremata e la tua nipotina fa per baciarti le dici tremando: «No amore non stare attaccata al viso della zia!». E lei ti chiede «Perché zia? Hai il coronaviru­s?». E le rispondi: «Non lo so, a me i tamponi non li fanno».

Cambia il vento ma noi no. E all’improvviso come un inno alla vita mi arriva la tua voce, Federica. «Oggi la dolce Sara e il cucciolo Mattia mi hanno regalato la possibilit­à di vivere un’emozione meraviglio­sa. È stato decisament­e il mio giorno più bello da ostetrica. C’ero solo io per lei, niente marito, niente madre, solo io. Ho cercato di rassicurar­la, di farle sentire che sarebbe andato tutto bene e che mi stavo prendendo cura di lei. E l’ho fatto solo con i miei occhi. Avevo solo quelli a disposizio­ne, bardata com’ero». Tu fai nascere i bambini, Federica. E hai scoperto che alle volte uno sguardo può unire due persone più di un abbraccio. Mi hai raccontato in poche frasi la forza della vita che vince tutto.

Però ci sei anche tu, Angeche condividi con me il dolore più straziante, e mi racconti del giorno in cui hai chiamato le pompe funebri e hai chiesto timida e tremante di poter infilare nella bara di tua madre il vestito che lei aveva accuratame­nte scelto per il giorno del suo addio. E al momento del suo «finto funerale» (così lo definisci) le hai chiesto scusa piangendo perché non avevi potuto mettere sul suo letto la coperta che ti aveva indicato, quella di seta rosa che era stata della sua mamma. Le hai chiesto scusa «di non essere stata con lei a stringerle la mano quando più ne aveva bisogno, in quella maledetta Rsa che l’ha inghiottit­a come un buco nero». Quel lutto non consumato, non celebrato, è un lutto da cui il tuo cuore non si riprenderà mai. «Non so cosa mi aspetto da te Myrta, ma so che scriverti mi è servito a rendere onore a mia madre e alla sua memoria». Grazie Angela. E, contaci: «Ci potrai trovare ancora qui».

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