Corriere della Sera

Cambiato capo, è ora di cambiare la vita in cella

- Di Luigi Ferrarella

Quindi la lezione è che un ministro della Giustizia conferma fiducia al capo delle carceri (riconoscen­dosi nel suo operato) se 13 detenuti muoiono in rivolte stile anni ‘70. O se teorizza che l’ereditato sovraffoll­amento (all’epoca 12.000 reclusi in più) è illusione ottico-aritmetica, ricalcolan­do la quale ci sarebbe anzi ancora posto. O se a Strasburgo prima si scrive di 6.000 braccialet­ti disponibil­i, e poi però che non va interpreta­to alla lettera. Ma non più se pm/giornali/tv autoprocla­mati antimafia scatenano fuorvianti polemiche, e ottengono controrifo­rme à la carte, quando giudici di sorveglian­za applicano la legge nel non far morire in cella detenuti (pure boss) bisognosi di indifferib­ili cure non assicurate da quel

Dap che sbaglia pure la mail del tribunale. Allora sì, ecco le dimissioni «spintanee» di uno dei meno difendibil­i direttori del Dap, voluto nel 2018 da Bonafede che ora fischietta come se non stesse «scaricando» il più coerente esecutore della propria filosofia carcerocen­trica. Non delira dunque chi, come Salvini, ironizza che dovrebbe dimettersi pure Bonafede. Peccato che l’ultimo a poterlo dire sia proprio Salvini. Il quale, quando governava con Bonafede nel Conte I, inneggiava a questa muscolare politica penitenzia­ria, fino alla gara tra i due ministri a chi fosse più arcigno ai fianchi dell’estradato Cesare Battisti, sulle note del filmino Facebook di Bonafede prodotto dall’amministra­zione penitenzia­ria. Cambiare il capo delle carceri è solo un diversivo se non cambia l’idea di cosa devono essere.

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