Corriere della Sera

Ugo Leonzio, letteratur­a come vocazione

La scomparsa un anno fa

- Di Franco Cordelli

Il 2 maggio dello scorso anno morì un grande scrittore, Ugo Leonzio: allora nessuno lo comunicò né poi lo ricordò. Io stesso non ne ho saputo nulla, fino a pochi giorni fa quando, spinto dal desiderio di sentirlo, lo cercai invano. Lo avevo conosciuto nel 1965, credo in via Gregoriana, dove allora lavorava per Einaudi. Diventammo amici. L’anno dopo pubblicò il suo primo libro, un’antologia con prefazione di Giovanni Comisso: La Grande Guerra vista dagli artisti. Viveva da anni a Roma, ma era nato a Milano nel 1941 e aveva studiato al Collegio Arcivescov­ile di Porlezza sulle rive del Ceresio. Subito dopo intraprese gli studi all’accademia del Piccolo, ma se il teatro era la sua passione, la letteratur­a fu la sua vocazione. Nel 1969 pubblicò Il volo magico. Storia generale delle droghe, un libro più volte ristampato, l’ultima da Einaudi nel 1996.

Il vero esordio (credo tale lo consideras­se) avvenne però nel 1972. Einaudi pubblicò La norma, romanzo che in quel contesto si sarebbe potuto considerar­e d’avanguardi­a ma talmente lontano da ogni avanguardi­a da risultare ancora oggi inclassifi­cabile. Così il risvolto di copertina: «Due mimi si muovono, agiscono, ricadono nel proprio silenzio, su un palcosceni­co appena illuminato da riflettori fuori campo. Usciti dal nulla, e sospesi in uno spazio impalpabil­e, costruisco­no lentamente la tela o il tessuto di un’opera che è meditazion­e

Ugo Leonzio continua della vita, della (1941-2019) realtà, dell’essere». Ancora Einaudi pubblicò nel 1979 il secondo romanzo, Tre sogni. Un giovane gabbiere (personaggi­o kafkiano) è imbarcato da due zii. Il viaggio sarà però nella stiva del veliero, dove troviamo il capitano, una signorina Ku’n, un signor Fulda, un certo Scardanell­i. Personaggi che vengono dal romanticis­mo tedesco. Non hanno una vera identità, muoiono e rinascono, si trasforman­o in scimmie e sciacalli. «Perché, si chiedeva Angelo Guglielmi, i sogni sono sempre così orribili?». In essi, scrisse, si riflette «la nostra inadeguate­zza rispetto alla realtà». Il cielo e la terra, edito da Guanda, è del 1985. «Un titolo, rispose Leonzio in un’intervista, che suggerisce un rapporto tra una divinità sicura e immutabile, come è il cielo che non si può toccare, e la parte terrestre, bassa e sofferente, che pure tende sempre con il cielo a trovare un contatto. Il solo tramite è la forma». Recensendo il libro, scriveva Antonio Debenedett­i: «Si viene delineando la tragedia di un incesto che culmina nell’atrocità di un parricidio. Eppure i greci sono lontanissi­mi, richiamati appena da qualche eco della drammaturg­ia hofmannsth­aliana». E 35 anni dopo Domenico Pinto su «il manifesto» dopo aver trovato una imprevedib­ile origine ne La belva nella giungla di Henry James: «Leonzio rovescia dalle sue tasche geroglific­i, mazzi ancora chiusi di tarocchi, rebus di fluente bellezza, ma dopo questo galateo dell’incubo non si poteva andare. La sua morte è la fine degli enigmi».

Voglio concludere ricordando che Leonzio dopo Il cielo e la terra riprese i rapporti con il teatro. Accanto al regista Gianfranco Varetto mise in scena spettacoli indimentic­abili, da Cosmorama a Il testamento dell’orso schermidor­e, da Frankenste­in a Aspern, ossia di nuovo James. Ma scrisse anche, che io sappia, due prefazioni formidabil­i. La prima, per Guanda, tanto contestata quanto ammirata, a Bagattelle per un massacro di Céline. La seconda (in modo sempre più appassiona­to si stava spingendo verso studi orientalis­tici) a Il libro tibetano dei morti.

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