I fantasmi di Zerocalcare La serie di graphic novel
La nuova serie di graphic novel presenta i più importanti autori italiani Si comincia con un lavoro ironico e struggente del fumettista bestseller
Bisognerebbe forse chiamarlo romanzo a fumetti, ma noi in Italia abbiamo sempre un vezzo esterofilo e preferiamo usare il termine inglese graphic novel. Solo che al nostro orecchio, ammaestrato da Giovanni Boccaccio e Luigi Pirandello, il sostantivo novel richiama il vocabolo «novella». Quindi, anche se la traduzione esatta sarebbe «romanzo», cioè un termine maschile, nella nostra lingua parliamo comunemente della graphic novel al femminile. La globalizzazione anglofona detta legge, insomma, ma fino a un certo punto.
Lessico a parte, da quando il fumetto ha acquistato la dignità che gli spetta, grazie all’opera di maestri della semiologia come Umberto Eco e della letteratura come Dino Buzzati (uno che riconosceva di apprezzare i fumetti neri tipo Diabolik, oggetto a suo tempo di violente invettive moraliste), la sua traduzione narrativa più sofisticata, appunto il graphic novel, ha trovato interpreti di prim’ordine anche nel nostro Paese. D’altronde una tradizione importante esisteva già da molto tempo prima che il termine inglese entrasse in voga: che cos’erano le opere di Hugo Pratt e di Guido Crepax, se non romanzi a fumetti con tutti i crismi del caso?
Da questo punto di vista la nuova collana del «Corriere della Sera», intitolata «Visioni», conferma un interesse ormai di lungo periodo per i nuovi talenti italiani del fumetto, dato che sin dalla sua nascita (o meglio rinascita, visto che la testata ha un passato remoto di tutto rispetto) nel novembre del 2011 il supplemento culturale «la Lettura» ospita ogni settimana un graphic novel miniaturizzato in due delle sue pagine. Ora per gli appassionati del genere parte invece una serie di volumi, curata da Fabio Licari in collaborazione con le più importanti case editrici del settore.
La prima uscita, in edicola domani con il «Corriere» e «La Gazzetta dello Sport», è Dimentica il mio nome, il lavoro del 2014 che, secondo i critici, segna il passaggio alla piena maturità di Zerocalcare (all’anagrafe Michele Rech) e che gli è valso il secondo posto al premio Strega Giovani. A dimostrazione che ormai anche le istituzioni più consolidate riconoscono al fumetto, anche quello popolare amato dal grande pubblico (i libri di Zerocalcare hanno superato il milione di copie vendute), il rango di autentica letteratura che gli spetta.
C’è ovviamente una forte continuità tra la produzione precedente di Rech e quest’opera, autobiografica quanto e più delle altre. La solita autoironia, la parlata romanesca, l’attaccamento viscerale al quartiere periferico di Rebibbia. Ritroviamo l’armadillo, essere immaginario che rappresenta la coscienza dell’autore, all’incirca (pur nella distanza siderale tra i due autori) come il Gesù crocefisso parlante per il don Camillo di Giovanni Guareschi. Immancabili i dialoghi con il Secco, amico di una vita e patito delle bombe carta. E poi c’è la madre, sempre con le fattezze di Lady Cocca (personaggio del Robin Hood disneyano), ma destinata ad assumere un ruolo centrale nella parte conclusiva della trama.
Attorno alla famiglia materna, con le sue vicende enigmatiche, ruota infatti l’intero romanzo a fumetti. L’occasione da cui parte il racconto è assai dolorosa: la morte della nonna di Zerocalcare, una signora francese novantenne che da piccola sognava di immolarsi come Giovanna d’arco, allevata a Nizza da nobili russi emigrati per sfuggire alla rivoluzione bolscevica e poi sposata con un misterioso aristocratico inglese dalla chioma fulva (l’unico colore inserito dall’autore nell’opera tutta in bianco e nero, con infinite sfumature di grigio). Chiamata solo Mamie (nonna in francese), anche se all’anagrafe si chiamava Huguette, ha avuto un ruolo cruciale nell’infanzia e nell’adolescenza del protagonista: «Non muoio finché tu non sarai diventato un uomo», gli ha detto quando era bambino.
Forse adesso il momento del trapasso all’età adulta è arrivato, ma esige un percorso investigativo e retrospettivo denso d’interrogativi («Chi è Iris?»). Quasi un giallo con elementi di horror e fantasy, che riserva parecchi colpi di scena. C’è molto dolore nelle tavole di questa opera, c’è la lotta con i fantasmi interiori. Alla fine l’autore scopre che non si può più fidare nemmeno dell’orso Pisolone, nel marsupio del quale da piccolo riusciva a dormire tranquillo dopo la separazione dei genitori. Ma gli animali che contano di più in Dimentica il mio nome sono le volpi, come quella alla quale il piccolo Michele portava il cibo allo zoo di Villa Borghese «ogni maledetto lunedì».
Il finale è bifronte. Da una parte, «sapere quante cose si sono accumulate per arrivare fino a te ti dice anche qualcosa di chi sei». Può darti sollievo. Ma rimane da qualche parte, nella tua carne viva, «quel groviglio brutto di nostalgia. E di rimpianti. E di rimorsi». La vita è così.
Che cos’erano le opere di Hugo Pratt e Guido Crepax, se non romanzi a fumetti? Ritroviamo l’armadillo, essere immaginario che rappresenta la coscienza dell’autore