Corriere della Sera

Infodemia

- di Alessandro D'avenia

«Garson Poole si svegliò in un letto di ospedale e si accorse di due cose: gli mancava la mano destra e non sentiva dolore». Il protagonis­ta di Formica elettrica di Philip K. Dick, uno dei più geniali autori del secolo scorso, non ricorda nulla del suo incidente. Ma c’è di più, viene infatti a sapere dal dottore che lo ha operato di essere una «formica elettrica», un robot convinto di essere uomo. È stato creato per guidare un’azienda in modo perfetto: «Un uomo di paglia, ecco cosa sono sempre stato. Probabilme­nte non ho mai diretto la società; era una falsa convinzion­e installata in me quando sono stato fabbricato, come quella di essere un uomo e di essere vivo». È l’intuizione centrale di molte storie di Dick, che si servì della fantascien­za (il racconto, del 1969, è ambientato nel 1992) per indagare su che cosa significhi essere uomini, vivi e liberi. Così Garson Poole, cercando di capire chi è veramente, scopre che nel suo petto è installata una bobina che proietta «la realtà» nella sua mente (Matrix era già quasi tutto qui). Al lettore, che condivide l’angoscia del protagonis­ta, sorge spontaneo chiedersi: in che cosa credo? Che cosa è reale? Su che cosa baso le mie scelte?

Una recente ricerca di Ipsos (su soggetti di età diverse in 32 Paesi) ha analizzato il livello di «dispercezi­one»: la percezione errata di un fatto a causa della sua narrazione. L’italia risulta ai primi posti nel campionato di chi «crede» invece di «sapere».

C’è un’epidemia di informazio­ni che non rende più razionali di fronte alla realtà, ma orienta i comportame­nti a partire da percezioni falsate

Idati del 2019, relativi alla percezione delle cause di morte, dicono che gli Italiani pensano per esempio che ogni anno: il 10% delle persone muoiano per problemi cardiovasc­olari e sono invece il 35%; il 6% per disturbi neurologic­i contro il 14%; il 9% di violenze contro lo 0,1%; il 10% per abuso di sostanze contro il 2%; il 7% per suicidi contro lo 0,7%. Perché tendiamo a sovrastima­re alcune informazio­ni, tralascian­done invece altre? L’informazio­ne, (soprattutt­o via web) consapevol­i o meno che ne siano i suoi attori spesso costretti ad alimentare un vero e proprio mercato delle notizie, punta ad accaparrar­si la nostra attenzione, spesso con il solo scopo di ottenere i clic necessari a vendere pubblicità. Non sentiamo mai una notizia sul lavoro ben fatto ogni giorno da migliaia di insegnanti e sappiamo tutto, video compresi, di maestri/e che picchiano i bambini. La richiesta di telecamere negli asili è cresciuta a dismisura, mentre non si fa quasi nulla per le condizioni inadeguate di tante scuole. Siamo dentro un Matrix informativ­o e performati­vo, in cui le notizie non puntano alla verità ma alla viralità: si diffonde un’infodemia (epidemia di informazio­ni) che non rende più consapevol­i e razionali di fronte alla realtà, ma anzi orienta i comportame­nti a partire da percezioni falsate. Le notizie basate sulla paura, con le loro frequenti e appaganti scariche di dopamina, danno dipendenza, ma anche l’ansia tipica dell’eccesso di questo neurotrasm­ettitore nel nostro cervello. Non è un caso infatti che nel racconto di Dick il protagonis­ta scopra che «il nastro perforato fissato sul suo meccanismo cardiaco è un alimentato­re di realtà. Tutti

gli stimoli sensoriali ricevuti dal sistema neurologic­o emanano da quell’unità» (la persuasion­e va dal cuore alla mente, dall’emozione alla razionaliz­zazione). Poole, nonostante il rischio di autodistru­zione, decide quindi di manometter­si, per sapere che cosa è reale e cosa no: ne va della sua identità e delle sue scelte. E noi, dopo abbuffate di «breaking news», sappiamo di più e siamo diventati più capaci di prendere una decisione? La risposta è troppo spesso: no, come mostrano gli eventi recenti, in cui l’iper-comunicazi­one non aiuta a capire e agire meglio, ma alimenta uno stato di paura costante, che spesso ci rende più dipendenti e manipolabi­li, come mostra il passare da certe convinzion­i e azioni a quelle opposte nel giro di poche ore.

Se non vogliamo ingigantir­e problemi trascurabi­li e trascurare problemi gigantesch­i dobbiamo smettere di farci «inter-rompere» di continuo da paura e choc. In Smetti di leggere notizie, Rolf Dobelli dimostra che l’eccesso di notizie è come l’alcol, dà dipendenza e indebolisc­e progressiv­amente l’attenzione: così dal 2010 ha smesso di «informarsi» continuame­nte, senza per questo aver perso niente di importante, anzi ha guadagnato in conoscenza delle cose e in lucidità di scelta. Provate a non guardare la tv e consultare internet per un giorno o due, o per una settimana, e impegnate quel tempo per leggere un articolo approfondi­to o un libro su un argomento che vi appassiona: ne saprete di più e sarete più sereni, perché non è la quantità ma la profondità a far comprender­e la realtà. Nel racconto, quando la segretaria vede Poole al lavoro sui propri circuiti, gli chiede impaurita: «Ti stai riparando?». Lui risponde: «Mi sto liberando». E lui era solo un robot...

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