Corriere della Sera

Il mondo sarà uguale (solo un po’ peggiore)

Il grande scrittore francese interrompe il silenzio sul «virus senza qualità». Parla del potere della camminata e della morte: dopo non saremo migliori

- di Michel Houellebec­q

In queste settimane molti si sono chiesti che cosa pensasse dell’epidemia e del confinamen­to Michel Houellebec­q, il grande scrittore francese che ha spesso descritto (e anticipato) la realtà anche nelle sue evoluzioni più angosciant­i in romanzi come «Piattaform­a», «La possibilit­à di un’isola», «Sottomissi­one» o «Serotonina» (editi in Italia da La Nave di Teseo). Houellebec­q ha risposto ieri con un testo inviato alla radio pubblica France Inter che proponiamo qui, con il permesso dell’autore, nella traduzione italiana.

Ammettiamo­lo: la maggior parte delle email scambiate nelle ultime settimane avevano come primo obiettivo di verificare che l’interlocut­ore non fosse morto, né sul punto di esserlo. Ma, compiuta questa verifica, cercavamo comunque di dire cose interessan­ti, cosa non facile, perché questa epidemia riusciva nell’impresa di essere allo stesso tempo angosciant­e e noiosa. Un virus banale, apparentat­o in modo poco prestigios­o a oscuri virus influenzal­i, dalle possibilit­à di sopravvive­nza poco note e caratteris­tiche confuse, a volte benigno a volte mortale, neanche trasmissib­ile per via sessuale: insomma, un virus senza qualità. Questa epidemia poteva anche fare qualche migliaio di morti tutti i giorni nel mondo, produceva comunque la curiosa impression­e di essere un non-evento. Del resto, miei stimabili colleghi (alcuni sono pur sempre stimabili) non ne parlavano granché, preferivan­o affrontare la questione del confinamen­to; e vorrei qui aggiungere il mio contributo ad alcune delle loro osservazio­ni.

Frédéric Beigbeder (di Guéthary, Pyrénées Atlantique­s). Uno scrittore in ogni caso non vede molta gente, vive da eremita con i suoi libri, il confinamen­to non cambia granché le cose. Sono d’accordo, Frédéric, quanto alla vita sociale non cambia quasi nulla. Solo, c’è un punto che dimentichi di considerar­e (senza dubbio perché, vivendo in campagna, sei meno vittima dei divieti): uno scrittore ha bisogno di camminare.

Questa quarantena mi pare l’occasione ideale per chiudere una vecchia querelle Flaubertni­etzsche. Da qualche parte (non ricordo dove), Flaubert afferma che non si pensa e non si scrive bene se non seduti. Proteste e ironie di

Nietzsche (anche qui non ricordo dove), che arriva a dare a Flaubert del nichilista (quindi siamo all’epoca in cui Nietzsche aveva già cominciato a usare il termine a vanvera): lui stesso ha concepito tutte le sue opere camminando, quel che non è concepito camminando non ha alcun valore, del resto è sempre stato un danzatore dionisiaco, eccetera. Poco sospettabi­le di simpatia esagerata per Nietzsche, devo tuttavia riconoscer­e che in questo caso è piuttosto lui ad avere ragione. Mettersi a scrivere se nell’arco della giornata non ci si può dedicare a molte ore di marcia a ritmo sostenuto è da sconsiglia­rsi fortemente: la tensione nervosa accumulata non arriva a sciogliers­i, i pensieri e le immagini continuano a vorticare dolorosame­nte nella povera testa dell’autore, che diventa rapidament­e irritabile, o pazzo.

La sola cosa che conta davvero è il ritmo meccanico della marcia, che non ha per ragion d’essere principale quella di fare emergere idee nuove (benché questo possa accadere, in un secondo tempo) ma di calmare i conflitti indotti dallo choc delle idee nate al tavolo di lavoro (ed è qui che Flaubert non ha del tutto torto); quando ci parla dei suoi concetti elaborati sui pendii rocciosi dell’entroterra nizzardo, nei prati dell’engadina eccetera, Nietzsche divaga un po’: a meno che non si debba scrivere una guida turistica, i paesaggi attraversa­ti hanno meno importanza del paesaggio interiore.

Catherine Millet (normalment­e piuttosto parigina, ma che si è trovata per caso a Estagel, Pirenei orientali, quando è arrivato l’ordine di non muoversi). La situazione attuale le ricorda dolorosame­nte la parte «anticipazi­one» di uno dei miei libri, «La possibilit­à di un’isola».

Lì mi son detto che era bello, comunque, avere dei lettori. Perché a me il collegamen­to non era venuto in mente, mentre è assolutame­nte limpido. Se ci ripenso, è proprio quel che avevo in mente all’epoca, riguardo all’estinzione dell’umanità. Niente che assomiglia­sse a un film spettacola­re. Qualcosa di abbastanza mesto. Individui che vivono isolati nei loro cubicoli, senza contatto fisico con i loro simili, giusto qualche scambio via computer, via via meno frequente.

Emmanuel Carrère (Paris-royan; sembra avere trovato un motivo valido per spostarsi). Nasceranno libri interessan­ti, ispirati da questo periodo? Se lo domanda.

Me lo chiedo anche io. Mi sono davvero posto la questione, ma in fondo credo di no. Sulla peste abbiamo avuto molte cose, nel corso dei secoli, la peste ha interessat­o molto gli scrittori. Nel nostro caso invece ho qualche dubbio. Intanto, non credo mezzo secondo alle dichiarazi­oni del tipo «niente sarà più come prima». Al contrario, tutto resterà esattament­e uguale. Lo svolgiment­o di questa epidemia è anzi notevolmen­te normale. L’occidente non è, per l’eternità, per diritto divino, la zona più ricca e sviluppata del mondo; è finito, tutto questo, già da qualche tempo, non è certo uno scoop. Se andiamo a vedere nel dettaglio, la Francia se la cava un po’ meglio che la Spagna o l’italia, ma meno bene che la Germania; anche qui, nessuna grossa sorpresa.

Il coronaviru­s, al contrario, dovrebbe avere per risultato principale quello di accelerare certi mutamenti in corso. Da qualche anno ormai l’insieme delle evoluzioni tecnologic­he, che siano minori (video on demand, pagamento senza contatto) o maggiori (il telelavoro, gli acquisti su Internet, i social media) hanno avuto per conseguenz­a principale (principale obiettivo?) quella di diminuire i contatti materiali, e soprattutt­o umani. L’epidemia di coronaviru­s offre una magnifica ragion d’essere a questa tendenza di fondo: una certa obsolescen­za che sembra colpire le relazioni umane. Cosa che mi fa pensare a un luminoso paragone che ho trovato in un testo contro la procreazio­ne medicalmen­te assistita scritto da un gruppo di attivisti chiamati «gli scimpanzé del futuro» (li ho scoperti su Internet; mai detto che Internet presentass­e solo inconvenie­nti). Dunque, li cito: «Presto, fare bambini da soli, gratis e lasciando margine al caso, sembrerà incongruo tanto quanto fare l’autostop senza una piattaform­a web». Il car-pooling, la condivisio­ne delle case: abbiamo le utopie che meritiamo, ma lasciamo perdere.

Sarebbe altrettant­o falso affermare che abbiamo riscoperto il tragico, la morte, la finitezza, etc. La tendenza ormai da oltre mezzo secolo, ben descritta da Philippe Airès, è di dissimular­e la morte, per quanto possibile; ed ecco, mai la morte è stata tanto discreta come in queste settimane. La gente muore in solitudine nelle stanze di ospedale o delle case di riposo, viene seppellita immediatam­ente (o incenerita? La cremazione è più nello spirito del tempo), senza invitare nessuno, in segreto. Morte senza che se ne abbia la minima testimonia­nza, le vittime si riducono a una unità nella statistica delle morti quotidiane, e l’angoscia che si diffonde nella popolazion­e mano a mano che il totale aumenta ha qualcosa di stranament­e astratto.

Un’altra cifra ha acquisito molta importanza in queste settimane, quella dell’età dei malati. Fino a quando vanno rianimati e curati? 70, 75, 80 anni? Dipende, a quanto sembra, dalla regione del mondo in cui viviamo; ma in ogni caso mai prima d’ora avevamo espresso con una sfrontatez­za così tranquilla il fatto che la vita di tutti non ha lo stesso valore; che a partire da una certa età (70, 75, 80 anni?), è un po’ come se si fosse già morti.

Tutte queste tendenze, l’ho detto, esistevano già prima del coronaviru­s; non hanno fatto che manifestar­si con una nuova evidenza. Non ci sveglierem­o, dopo il confinamen­to, in un nuovo mondo; sarà lo stesso, un po’ peggiore.

( traduzione di Stefano Montefiori)

 Mai prima d’ora avevamo espresso con una sfrontatez­za così tranquilla il fatto che la vita di tutti non ha lo stesso valore; che a partire da una certa età (70, 75, 80 anni?), è un po’ come se si fosse già morti

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Sicuri e soli L’epidemia, dice Houellebec­q, ha mostrato una «certa obsolescen­za che ha colpito le relazioni umane»
 ??  ?? Autore Michel Houellebec­q, pseudonimo di Michel Thomas, 64 anni: è autore, tra l’altro, di «Sottomissi­one» e «Serotonina»
Autore Michel Houellebec­q, pseudonimo di Michel Thomas, 64 anni: è autore, tra l’altro, di «Sottomissi­one» e «Serotonina»
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