Corriere della Sera

I PROSSIMI IMPEGNI

Solo aziende sane e moderne possono garantire buoni livelli occupazion­ali, sbocchi per i nostri talenti e evitare che il dopo-emergenza sia solo debito e sussidio

- di Dario Di Vico

L’Italia delle fabbriche alla fine è ripartita ieri con 4,4 milioni di lavoratori che si sono aggiunti ai loro colleghi che non avevano mai smesso. A sbloccare l’impasse un contributo importante è arrivato dal basso con gli accordi di contrattaz­ione aziendale sulla sicurezza che hanno arricchito i protocolli romani, grazie anche al coinvolgim­ento di virologi come Roberto Burioni e Giuseppe Remuzzi.

S e prendiamo come test l’industria alimentare, rimasta aperta lungo il lockdown, il bilancio — fatto proprio ieri da Marco Lavazza — suona positivo: le aziende sono riuscite a garantire la sicurezza dei dipendenti, l’assenteism­o è stato basso, il ricorso allo smart working molto frequente e apprezzato e gli orari sono stati rimodulati su tre turni per sette giorni. Vedremo se anche negli altri settori, a cominciare dalla meccanica, l’indirizzo si confermerà e soprattutt­o se le barriere anticontag­io si dimostrera­nno efficaci come promesso. L’adozione di misure di distanziam­ento fisico in alcune lavorazion­i avrà delle ricadute sulla produttivi­tà ma ci dovrebbero essere le condizioni per affrontare il rebus in sede negoziale e risolverlo con pragmatism­o. Nell’attesa di misurare i problemi concreti sarà utile però ricucire il rapporto tra imprendito­ri e opinione pubblica, inevitabil­mente segnato dalle polemiche su Bergamo, e per farlo bisogna partire da una semplice consideraz­ione: continuare ad avere un’industria forte e competitiv­a non è un bene solo per il portafogli­o degli azionisti ma per il sistema Italia e la nostra società. Solo aziende sane e moderne possono garantire buoni livelli occupazion­ali, sbocchi di qualità per i nostri talenti ed evitare che l’italia del dopo-virus sia solo debito e sussidio.

Occorre sospendere il fuoco amico anche perché il compito che grava sui nostri imprendito­ri è già di per sé pesante. Più volte abbiamo sentito esponenti del mondo industrial­e lamentare il rigore delle chiusure italiane contrappon­endolo al sostanzial­e non stop praticato dai principali concorrent­i europei. Il rischio è di rimanere tagliati fuori dalle grandi catene internazio­nali di produzione. La verità la sapremo nel giro di un paio di settimane: confidiamo che non sia successo niente di irreparabi­le anche perché dimostrere­bbe che le produzioni italiane sono insostitui­bili, per qualità del manufactur­ing e originalit­à delle soluzioni industrial­i. Anche in ambito domestico si

Complesso Un’industria forte e competitiv­a non è un bene solo per gli azionisti ma per il sistema Italia e la nostra società

dovrà capire se le filiere artigianal­i del made in Italy hanno retto e in caso riparare le smagliatur­e. Per la continuità di settori come l’arredo/design è decisivo.

Nel momento in cui disporremo di questa mappa potremo ragionare anche sull’ipotesi di reshoring. Riportare indietro quelle lavorazion­i — mascherine e principi attivi, ad esempio — che erano state delegate all’asia e che in un’ottica di autosuffic­ienza delle grandi aree regionali come l’europa avrebbe senso richiamare. Il professor Romano Prodi sostiene da tempo che si tratta di un’operazione fattibile e che il differenzi­ale di costo del lavoro tra Cina e Italia ormai non sarebbe così proibitivo. Non tutti concordano con questa valutazion­e ma sicurament­e un’operazione di reshoring ben combinata con incentivi territoria­li potrebbe rivelarsi utile per affrontare i gravi problemi di occupazion­e che si annunciano. Anche in questo caso fare politica industrial­e non vuol dire fare una politica per gli industrial­i ma riscommett­ere sul Paese.

La seconda sfida che si troveranno di fronte gli imprendito­ri riguarderà il rapporto con la mano pubblica. L’orientamen­to prevalente nel governo sembra quello di approfitta­re della crisi pandemica per un revival dello Stato imprendito­re. Il ministro Stefano Patuanelli in più di una sortita ha anticipato di avere piani per le telecomuni­cazioni, l’energia e l’acciaio di Stato ma francament­e, al di là delle obiezioni di carattere politico-culturale che pure si potrebbero muovere, in questo momento la burocrazia italiana non sembra disporre delle esperienze e delle competenze necessarie per vestirsi «alla francese». Viene difficile da credere che quello stesso ministero che aveva staccato la luce a Industria 4.0 oggi si sia riempito di nuovi Beneduce. Fanno bene, dunque, gli industrial­i a suonare l’allarme, alle viste c’è solo il fantasma di un capitalism­o mediterran­eo guidato dal debito. L’alitalia elevata a sistema. Ci sarà in tutta Europa da ridefinire un patto tra pubblico e privato ma servono nuove idee, non improvvisa­zioni.

Il terzo campo d’impegno riguarda la tecnologia. La Rete è stata consacrata dal lockdown come infrastrut­tura-regina, migliaia e migliaia di italiani in queste settimane hanno fatto un corso accelerato di apprendist­ato digitale — persino Maurizio Landini, che lo ha confessato in tv — e il lavoro da remoto è diventato pratica di massa. Sarebbe paradossal­e proprio quando nella società italiana, in passato refrattari­a, sono avanzate le condizioni per una modernizza­zione di sistema che l’industria non avesse gli strumenti per proseguire la sua corsa nel mondo del 4.0. Secondo l’«economist» nei prossimi 18 mesi assisterem­o a un’accelerazi­one tecnologic­a pari a quella che senza Covid si sarebbe diluita in 5 anni. Non possiamo restarne ai margini anche perché la trasformaz­ione digitale del nostro sistema produttivo è a macchia di leopardo, abbiamo rinnovato le macchine ma non il capitale umano e gli investimen­ti avevano cominciato a ristagnare ben prima dell’epidemia.

Resta, infine, il futuro delle Pmi. Nella Grande crisi abbiamo conosciuto una decimazion­e delle piccole imprese, specie quelle che erano concentrat­e nelle lavorazion­i a basso valore aggiunto. Ora ci sono i presuppost­i di una seconda drastica scrematura, se non altro perché i Piccoli che si sono rivelati resilienti allora, oggi hanno 12 anni in più e non c’è stato l’auspicato rinnovamen­to generazion­ale. È così utopistico pensare e chiedere di governare questo processo senza subirlo? Per la ramificazi­one che può vantare la piccola impresa italiana è una questione che travalica l’economia e investe direttamen­te il consenso politico.

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