Corriere della Sera

Di Matteo accusa Bonafede «Suo il voltafacci­a sul Dap»

L’ex pm e la mancata nomina a capo delle carceri. Le opposizion­i: il ministro lasci

- di Giovanni Bianconi (Ansa)

ROMA «Esterrefat­to rimasi io dall’improvviso voltafacci­a del ministro», spiega l’ex pubblico ministero antimafia Nino Di Matteo agli amici che gli chiedono una reazione al Guardasigi­lli Alfonso Bonafede, che ha usato proprio quell’espression­e — esterrefat­to — per definire il proprio stato d’animo alla rivelazion­e del magistrato sulla sua mancata nomina al vertice delle carceri italiane, nel giugno 2018. Pubblicame­nte Di Matteo non aggiunge altro, solo un «confermo quello che ho detto parola per parola, non arretro di un millimetro». Ma ce n’è abbastanza per alimentare la polemica innescata dalla doppia telefonata (sua e di Bonafede) alla trasmissio­ne Non è l’arena, su La7, domenica sera (quasi notte). Anche perché ieri è arrivata una nuova ricostruzi­one di Bonafede, in netto contrasto con quella del magistrato.

In estrema sintesi: Di Matteo, all’epoca in servizio alla Superprocu­ra antimafia e oggi componente del Consiglio superiore della magistratu­ra, sostiene che Bonafede lo chiamò al telefono per proporgli la guida del Dap (Dipartimen­to dell’amministra­zione penitenzia­ria) o, in alternativ­a, la direzione dell’ufficio Affari penali (posto occupato da Giovanni Falcone nel 1991-92, ma oggi ridimensio­nato per competenze e gerarchie). «Scelga lei», concluse il Guardasigi­lli. Lui prese 24 ore di tempo, e quando si presentò al ministero disse che accettava la guida del Dap. Ma Bonafede replicò che l’aveva già assegnata a un altro magistrato (Franco Basentini, dimessosi l’altro giorno dopo il clamore suscitato dalla scarcerazi­one del boss di camorra Pasquale Zagaria), restava l’altro incarico. Di Matteo ribatté che non gli andava bene e l’indomani confermò il suo rifiuto.

Il Guardasigi­lli, al contrario, ricorda che nel primo incontro «dissi al dottor Di Matteo, orientato per il Dap, che ritenevo l’opzione Affari penali la migliore e più adatta; l’arrivo di Di Matteo avrebbe rappresent­ato un segnale chiaro e inequivoca­bile alla criminalit­à organizzat­a. Alla fine mi sembrava che fossimo concordi sulla scelta di quella collocazio­ne, che gli avrebbe consentito di incidere su tutta la legislazio­ne in materia penale. Ad ogni modo, ci lasciammo con questa prospettiv­a». Il giorno dopo l’ex pm insisté per il Dap, e «con profondo rammarico, gli spiegai che, dopo l’incontro precedente, avevo già assegnato quell’incarico a un altro magistrato. Ricordo perfettame­nte che gli dissi che sarebbe stato comunque “la punta di diamante del ministero contro la mafia”, ma lui ribadì legittimam­ente la sua scelta».

Un contrasto chiaro ed evidente, destinato ad alimentare lo scontro politico apertosi fin dalla notte tra domenica e lunedì. Perché sullo sfondo restano — subito adombrate nella trasmissio­ne tv — le preoccupaz­ioni dei boss mafiosi e camorristi per il ventilato arrivo di Di Matteo al Dap («questi so’ pazzi, amm’a fà ammuina», dicevano nei discorsi intercetta­ti o riferiti dagli agenti penitenzia­ri) come presunto motivo del ripensamen­to ministeria­le. Illazione che Bonafede rifiuta sdegnato, rivendican­do la propria politica antimafia e precisando che quando fece la doppia proposta a Di Matteo, che includeva il Dap, quelle intercetta­zioni erano già note. Anzi, «furono oggetto di specifica conversazi­one nella prima telefonata»; se avesse avuto timori per la reazione dei boss non avrebbe fatto la doppia proposta (che includeva il Dap) al magistrato più scortato d’italia proprio in virtù delle minacce mafiose.

Per il ministro, insomma, tutto si riduce a un malinteso; nessun ripensamen­to nemmeno «indotto da altri», come ipotizzato da Di Matteo nella telefonata in diretta tv.

Le prime richieste di dimissioni a Bonafede arrivano da un partito di maggioranz­a, con il deputato di Italia viva Cosimo Ferri; poi il suo leader, Matteo Renzi, parla di «regolament­o di conti tra giustizial­isti». Il Pd attende che il ministro chiarisca in Parlamento perché «la confusione non è ammissibil­e», mentre i Cinque Stelle si schierano al fianco del Guardasigi­lli, capodelega­zione nel governo. L’opposizion­e di centrodest­ra, compatta, chiede la testa di Bonafede con il paradossal­e effetto di ergere a proprio paladino, in questo scontro, l’ex pm tanto osteggiato da Forza Italia, che nel processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia è riuscito a far condannare, in primo grado, Marcello Dell’utri assieme a ex carabinier­i e boss di Cosa nostra. Divenuto anche per questo un’icona grillina.

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Il magistrato Nino Di Matteo con Roberto Tartaglia, oggi vice al Dap, in occasione del processo sulla trattativa Stato-mafia
In udienza Il magistrato Nino Di Matteo con Roberto Tartaglia, oggi vice al Dap, in occasione del processo sulla trattativa Stato-mafia
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Guardasigi­lli Il ministro Alfonso Bonafede, 43 anni, esponente del M5S

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