QUANDO GIGI RIVA MONTAVA LE GETTONIERE IN ASCENSORE
Caro Aldo, abbiamo un progetto (nella foto sotto): far fare una statua gigante al nostro grande Gigi Riva: l’uomo, il campione, il sardo. Una statua visibile dal mare e dal cielo a Cagliari, come la Statua della Libertà a New York. Una statua a Gigi Riva da vivo, che serva a futura memoria anche fra trecento anni come noi veneriamo sempre Sant’efisio. Eravamo già in accordo con l’allora sindaco di Cagliari Massimo Zedda, ma ci ha fermati un veto di una legge fascista del 1927 che impedisce di costruire statue giganti in luogo pubblico a personaggi pubblici che non siano del regime o ecclesiastici. A meno che non siano stati di gran valore per la patria, può esserci la deroga. La stiamo aspettando da parte del ministro dell’interno. Caro Pietro, Bella l’idea del monumento a Gigi Riva, con Meazza il più grande calciatore italiano di tutti i tempi, tuttora capocannoniere della Nazionale, per la quale si fece spezzare le gambe.
Le segnalo al riguardo il bellissimo libro dedicato da Luca Telese al Cagliari dello scudetto, Cuori rossoblù, che si apre ovviamente con la mitica battuta dell’allenatore Manlio Scopigno, davanti al televisore che trasmetteva le partite degli azzurri dal Messico: «Tutto mi sarei atteso nella vita, tranne vedere Niccolai in mondovisione» (per i giovani: Comunardo Niccolai era un buon stopper, rimasto famoso più che altro per gli autogol. Lo stopper era il difensore centrale che marcava il centravanti; l’altro centrale si chiamava libero).
A Gigi Riva sono dedicati due capitoli. Si racconta la sua infanzia: orfano di padre, cresciuto in un collegio durissimo, da cui riuscì a farsi cacciare; andò a lavorare poco più che bambino, montava le gettoniere sugli ascensori (sempre per i giovani: al tempo per prendere un ascensore si infilava una monetina; così i condomini non litigavano, e gli ospiti davano il loro contributo alle spese).
Tutti i protagonisti del Cagliari dello scudetto — 1970, cinquant’anni fa — erano figli del dopoguerra, venivano da famiglie semplici, guadagnavano meno di un decimo di quello che guadagna oggi non un Cristiano Ronaldo, ma un centrocampista di serie C. Erano tutti italiani, tranne Nenè, che aveva fatto la riserva di Pelè in Brasile. E nessuno era sardo; ma divennero sardi, contagiati dall’amore della gente che divenne la loro.