Nel nome dei numeri
Com’era contento il Sala vicepresidente della Lombardia, e noi con lui, nell’annunciare alla tivù che il tasso di contagio R0 in regione era sceso a 0.75, addirittura sotto la media nazionale. D’altronde non puoi rialzare il Pil se prima non abbassi l’r0, sentenziava su qualche altro canale un virologo (o un economista, ormai si tende a confonderli). Che l’ottimismo emani da un dato in discesa, dopo che per decenni è stato associato a quelli in salita, gratificherà i teorici della decrescita felice, ultimamente in decrescita anche loro. Resta da capire come sia stato ottenuto quel numeretto magico, 0.75. A detta del vicepresidente, «incrociando i dati». I dati o le dita? Non è chiaro infatti su che cosa si basi la raffica di numeri a cui abbiamo delegato le nostre scelte, comprese quelle di libertà. Sui pazienti sensibili ai tamponi che in realtà non si fanno, o comunque non quanti se ne dovrebbero? Sui contagi di due settimane fa, tale è il tempo di gestazione del virus, quando eravamo ancora tutti chiusi ermeticamente in casa?
Domande oziose. Con la perdita di senso delle parole, i numeri sono diventati una religione, l’unica che ancora reclama sacrifici umani. Si trema e ci si scanna per il raggiungimento di una proiezione o per lo sforamento di un parametro (ricordate il famoso 3 per cento di Maastricht?), senza più chiedersi non tanto chi ci sia dietro, ma che cosa ci sia sotto. Forse per non essere costretti ad ammettere che talvolta sotto non c’è nulla.