«La videochiamata in corsia Le voci dei miei cari mi hanno ridato la vita»
Il volto segnato, gli occhi scavati, un timido sorriso e il pollice rivolto verso l’alto. La storia di Claudio Massai, commerciante in pensione di Aosta, è tutta in quest’istantanea, scattata il 29 aprile mentre usciva dall’ospedale Parini dopo 45 giorni trascorsi tra la vita e la morte. Stretto nel suo piumino blu, la tuta e le scarpe da ginnastica, con passo incerto ha lasciato la struttura sanitaria accompagnato dai familiari.
Ha compiuto 68 anni a febbraio, pochi giorni prima che il Covid lo trascinasse in un lungo incubo. Per l’ex venditore di autoricambi tutto si è complicato molto velocemente. Era il 13 marzo. Il contagio è stato devastante per il suo fisico. «Tutto è iniziato durante una passeggiata con mia moglie, mi sono accorto che mi mancava il fiato».
I sintomi si sono manifestati a casa (tosse e febbre). I dati del saturimetro fuori norma, la chiamata al 112, insomma ha fatto tutta la «trafila» fino ad arrivare in ospedale, prima nel reparto Covid e poi in Rianimazione. I medici hanno provato in ogni modo a compensare la difficoltà a respirare, a dare ossigeno ai polmoni sempre più infiammati: occhialini, maschera, casco, fino all’intubazione. Dieci giorni di coma, la tracheotomia, infine il lento e angosciante risveglio. «È stato un periodo tremendo — racconta — pieno di incubi e allucinazioni, vedevo la testa staccata dal corpo e la telecamera appesa alla parete che veniva ad aggredirmi. Chiudevo gli occhi per non guardare ma, quando li riaprivo, era peggio di prima. Credevo che la mia famiglia fosse morta e che fossi rimasto solo io in vita. Volevo morire, per me era finita. Avrei voluto staccarmi dai sondini e dai tubi che mi collegavano all’ossigeno. Mi ricordo che stringevo forte le mani degli infermieri tanto da far loro male». Giorni di terrore e disperazione. «Ricordo alcune voci che mi incoraggiavano: “Forza Claudio, ce la puoi fare, la tua famiglia ti aspetta a casa”. E quella preghiera recitata da un diacono e da una infermiera che mi teneva la mano».
Quando tutto sembrava perduto, quando anche i medici cominciavano a dubitare delle possibilità di ripresa, quando ai familiari non restava che un sottile filo di speranza, è arrivata la svolta grazie a una videochiamata dei parenti più stretti. «Mi ha ricollegato alla realtà e alla mia famiglia, mi ha ridato la voglia di lottare anche per loro». Da quel giorno è iniziata la discesi sa. «Ho avuto delle complicanze che mi hanno costretto in ospedale per molte settimane. Le piccole conquiste quotidiane però mi hanno dato la forza per andare avanti: riuscire a stare seduto, il primo piede poggiato a terra, ricominciare a mangiare e a farla doccia da soli». La solitudine, «l’aspetto più pesante di tutti». «Ho patito la lontananza dalle persone care — sottolinea Claudio — e il vivere senza la loro presenza in un momento così difficile, non sono mai stato abituato a stare da solo durante i dolori e le malattie».
Il 3 aprile il secondo tampone negativo, il Covid è alle spalle ma non il trauma interiore provocato dalla drammatica esperienza. «Ora sono a casa e mi sembra un sogno. Ogni giorno lo vivo come un dono. Sono di nuovo alle prese con il saturimetro ma, questa volta, con un altro spirito perché vedo piccoli miglioramenti quotidiani». L’ultima
I momenti
«Ero in ospedale e credevo che la mia famiglia fosse morta Ora tutto è un dono»
riflessione: «Ho sofferto fisicamente e moralmente in ospedale ma le persone a me vicine hanno sofferto anche di più. Passavano le giornate in attesa di notizie e si sentivano sollevate ogni volta che i medici dicevano loro anche solo che ero stabile. Avevano piacere di sapere che gli infermieri in Rianimazione mi accudivano, mi spalmavano la crema, mi accarezzavano e mi parlavano al posto loro».