Sul caso Dap Di Matteo non arretra «Ho riferito fatti, non percezioni»
Lo sfogo dell’ex pm: non so se ci siano stati condizionamenti politici. Critiche dai M5S del Csm
ROMA Chiuso al lavoro nella sede del Consiglio superiore della magistratura, Nino Di Matteo evita di tornare sulla polemica con il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede innescata dalla telefonata in diretta tv sulla sua mancata nomina a capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Ma continua a ritenere di non aver sbagliato a rivelare il retroscena di due anni fa.
«Ho esposto dei fatti, non percezioni; e non faccio illazioni, ognuno può trarne le conseguenze che crede», ripete a chi gli chiede se non abbia avuto ripensamenti sull’opportunità della chiamata a Non è l’arena, su La7, a trasmissione in corso: «Era stato tirato in ballo il mio nome, e allora ho pensato che fosse giusto intervenire». Per stabilire la verità dei fatti, che invece Bonafede ha ricostruito in maniera diversa. L’accostamento con i timori dei boss per la sua nomina al ripensamento sull’incarico è la cosa che più ha indignato il ministro, ma anche di fronte a questo Di Matteo non arretra.
«Non so se sia stata una scelta autonoma o indotta da altri», ribadisce a proposito di presunte pressioni, politiche o di altro genere, ricevute da Bonafede per cambiare idea; l’aveva detto in tv e continua a ripeterlo. Lui non ha mai accusato Bonafede di essere stato intimidito, ma nelle sue riflessioni ribadisce che proprio in presenza di quelle intercettazioni in carcere «il voltafaccia del ministro» non fu un bel segnale per il contrasto alla mafia. E l’amarezza provata a giugno 2018 — quando il Guardasigilli gli disse prima «scelga lei» e l’indomani, di fronte alla sua scelta per il vertice del Dap, gli comunicò che aveva già scelto un altro — è la stessa di allora: «Io non ho secondi fini, come non ne avevo quando fui contattato dal ministro. Fu lui a cercarmi, non io. E ho ritenuto di fare quella telefonata anche perché il ministro aveva appena nominato un nuovo capo del Dap, dunque nessuno poteva più strumentalizzare le mie parole sostenendo che volessi quel posto».
Dentro il Csm, a bacchettare l’ex pm sono i tre componenti laici indicati dai Cinque Stelle (Alberto Benedetti, Filippo Donati e Fulvio Gigliotti), che accusano: «I consiglieri dovrebbero più di chiunque altro osservare continenza e cautela nell’esprimere le proprie opinioni, proprio per evitare di alimentare speculazioni e strumentalizzazioni politico-mediatiche che fanno male alla giustizia e minano l’autorevolezza del Csm».
Ma nella base del Movimento si fanno sentire i malumori per le rivelazioni di Di Matteo, sebbene lo stato maggiore del partito sia schierato con Bonafede. E il senatore grillino Nicola Morra, presidente della commissione Antimafia, prova a mediare: «Uomini come Di Matteo, eroe e galantuomo, non possono essere messi in discussione, al pari delle politiche antimafia promosse dal M5S». Il ministro riferirà in Parlamento, forse già oggi o domani, come chiesto ormai da tutti i partiti.