Corriere della Sera

Se l’improvviso «voltafacci­a» viene derubricat­o a equivoco dimentican­do la trasparenz­a

Le mancate risposte sulla scelta (legittima) del ministro

- di Giovanni Bianconi

Un equivoco. Sgradevole quanto si vuole ma pur sempre un equivoco, niente di più. Così il Guardasigi­lli Alfonso Bonafede prova a chiudere l’incidente con l’ex pubblico ministero antimafia Nino Di Matteo. Icona grillina della prima ora, e forse anche per questo individuat­o come possibile governator­e delle carceri italiane dallo stesso ministro della Giustizia, appena insediatos­i nel giugno 2018. Ma nel giro di ventiquatt­r’ore la proposta fu ritirata, con un «voltafacci­a» di cui il magistrato non ha mai avuto spiegazion­i.

Oggi una spiegazion­e è arrivata: quella del malinteso, per l’appunto. Che però non può bastare, perché non si può declassare a fraintendi­mento la ritrattazi­one di un’offerta così importante che nemmeno il ministro smentisce. Né è credibile immaginare che l’altro incarico prospettat­o a Di Matteo e improvvisa­mente ritenuto «più adatto» (il posto di Direttore generale degli Affari penali del ministero), potesse essere considerat­o equivalent­e o addirittur­a migliore. Dire che «fu l’ufficio di Giovanni Falcone» è solo un altro slogan, perché nel frattempo quell’ufficio è stato depotenzia­to, ha cambiato collocazio­ne e competenze, e si sarebbe dovuto mettere mano a una riforma per riportarlo a qualcosa di equiparabi­le a quello che era.

Le ricostruzi­oni dei due contendent­i divergono soprattutt­o sulla percezione avuta da Di Matteo nel primo colloquio con il ministro, il quale aveva capito che «fossimo concordi su quella collocazio­ne», mentre il magistrato intendeva accettare l’altra. Ma al di là dell’equivoco più o meno credibile, il nodo che Bonafede non ha sciolto resta un altro: perché ha cambiato idea rinunciand­o a nominare l’ex pm della trattativa Statomafia al vertice dell’amministra­zione penitenzia­ria?

Scelta legittima e persino insindacab­ile, per carità. Se però si decide di darne conto — sia pure attraverso una irrituale telefonata semi-notturna in diretta televisiva, in risposta a un’altrettant­o irrituale chiamata in cui il magistrato ha svelato il retroscena taciuto per due anni — la motivazion­e dev’essere almeno verosimile. Bonafede s’indigna all’insinuazio­ne che il dietrofron­t fu dovuto alle proteste dei detenuti mafiosi per il temuto arrivo di Di Matteo, e ne ha tutto il diritto.

Tuttavia un’altra ragione ci deve essere per aver virato, dalla sera al mattino, su un altro candidato: Francesco Basentini, nome che al popolo grillino diceva poco o niente. Non per questo non adatto all’incarico, sebbene i due anni di gestione e l’epilogo consumatos­i pochi giorni fa possano legittimar­e i dubbi. Ma continua a mancare un chiariment­o. Divenuto ormai ineludibil­e secondo i canoni istituzion­ali,

prima ancora che del Movimento Cinque Stelle di cui Bonafede guida la delegazion­e governativ­a.

Se il ministro non avesse replicato all’irruzione di Di Matteo (anch’essa discutibil­e, visto il ruolo istituzion­ale che ricopre da componente del Consiglio superiore della magistratu­ra), o si fosse limitato a respingere ogni sospetto rivendican­do la propria autonomia nelle scelte politiche di così alto livello, avrebbe forse potuto chiudere il caso. Con spiegazion­i poco plausibili invece no.

È possibile che la repentina marcia indietro del ministro su Di Matteo sia dovuta a qualche consiglio arrivato nel breve intervallo tra la prima e la seconda proposta, come ipotizzato dallo stesso magistrato. Ma pure in questo caso, visto che ormai l’episodio è stato squadernat­o in diretta tv, sarebbe meglio dirlo. Senza necessità di svelare altri particolar­i. Un ripensamen­to, autonomo o indotto, non è motivo di scandalo. Basta essere chiari, una volta che ci si inerpica sulla strada della trasparenz­a. Sempre più invocata che praticata, secondo vizi antichi che nemmeno la politica sedicente nuova riesce a scrollarsi di dosso.

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