ANCORA UN RINVIO, LIBERARE ZAKI È UNA BATTAGLIA DI TUTTI
Sette volte sette. È imperdonabile quel che sta accadendo a Patrick Zaki, il ricercatore egiziano di Bologna che per la settima volta in sette settimane s’è visto rinviare il processo. Domani saranno tre mesi dal suo arresto e tutto fa credere che ci saranno un ottavo rinvio, poi un nono, quindi un decimo e così via, almeno per tutt’e due gli anni di detenzione cautelare che il regime di solito riserva ai dissidenti. Zaki langue nel supercarcere di Tora alla periferia del Cairo, «lo Scorpione», così chiamato perché è lì che gli sgherri del generale Al Sisi torturano gli oppositori. Prigioniero della pandemia, il mondo s’è dimenticato di questo giovane detenuto in eterna attesa di giudizio. E prossimo al giudizio eterno, se non si fa qualcosa per tirarlo fuori: qualche notte fa e qualche cella più in là, sempre a Tora, è morto un videomaker che aveva osato definire «un dattero» il presidente egiziano. Erano appena scaduti i due anni di carcerazione preventiva e anche Shady Habash, così si chiamava, non aveva mai avuto un processo. Il nostro Zaki soffre d’asma, più d’altri è a rischio Covid. Eppure ogni lunedì mattina i giudici lo beffano, decidendo che non si può decidere proprio per colpa del virus: sapete com’è, è l’epidemia a impedirci di celebrare le udienze…
«Non è la prigione che uccide, ma la solitudine», ha scritto Shady a un amico, prima di morire. Vero. E la solitudine di Zaki, la battaglia per liberarlo è qualcosa che ci riguarda. Perché serve a liberare tutti noi. Un ceffone per il presente, un avvertimento per il futuro a chiunque voglia approfittarsi del virus e cancellare diritti umani fondamentali, rivedere universali regole di libertà, limitare elementari diritti del lavoro. A chiunque ripete che niente sarà più come prima, e in realtà sogna che tutto diventi molto peggio.