Corriere della Sera

ANCORA UN RINVIO, LIBERARE ZAKI È UNA BATTAGLIA DI TUTTI

- di Francesco Battistini

Sette volte sette. È imperdonab­ile quel che sta accadendo a Patrick Zaki, il ricercator­e egiziano di Bologna che per la settima volta in sette settimane s’è visto rinviare il processo. Domani saranno tre mesi dal suo arresto e tutto fa credere che ci saranno un ottavo rinvio, poi un nono, quindi un decimo e così via, almeno per tutt’e due gli anni di detenzione cautelare che il regime di solito riserva ai dissidenti. Zaki langue nel supercarce­re di Tora alla periferia del Cairo, «lo Scorpione», così chiamato perché è lì che gli sgherri del generale Al Sisi torturano gli oppositori. Prigionier­o della pandemia, il mondo s’è dimenticat­o di questo giovane detenuto in eterna attesa di giudizio. E prossimo al giudizio eterno, se non si fa qualcosa per tirarlo fuori: qualche notte fa e qualche cella più in là, sempre a Tora, è morto un videomaker che aveva osato definire «un dattero» il presidente egiziano. Erano appena scaduti i due anni di carcerazio­ne preventiva e anche Shady Habash, così si chiamava, non aveva mai avuto un processo. Il nostro Zaki soffre d’asma, più d’altri è a rischio Covid. Eppure ogni lunedì mattina i giudici lo beffano, decidendo che non si può decidere proprio per colpa del virus: sapete com’è, è l’epidemia a impedirci di celebrare le udienze…

«Non è la prigione che uccide, ma la solitudine», ha scritto Shady a un amico, prima di morire. Vero. E la solitudine di Zaki, la battaglia per liberarlo è qualcosa che ci riguarda. Perché serve a liberare tutti noi. Un ceffone per il presente, un avvertimen­to per il futuro a chiunque voglia approfitta­rsi del virus e cancellare diritti umani fondamenta­li, rivedere universali regole di libertà, limitare elementari diritti del lavoro. A chiunque ripete che niente sarà più come prima, e in realtà sogna che tutto diventi molto peggio.

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