«Hollywood», la serie che tocca il melodramma con enfasi
Hollywood, la serie Netflix di Ryan Murphy (Glee, American Crime Story, The Politician) racconta di un gruppo di giovani aspiranti attori e registi che nel secondo dopoguerra cercano il successo nel favoloso mondo del cinema e nella sua industria di maggiore successo.
A reggere il tutto (sette puntate) ci sono due storie vere. Quella di Peg Entwistle, un’attrice che non riuscendo a far carriera si arrampica fino alla cima della lettera H della Hollywood Sign e salta nel vuoto, uccidendosi. Aveva 24 anni. E quella di Scotty Bowers, il gigolò dell’età d’oro di Hollywood, il benzinaio di Hollywood Boulevard che divenne un’attrazione sessuale per tante star e che forniva aitanti giovanotti a quei divi che non potevano rivelare la loro omosessualità (per la California era reato, per il Cinema la fine di un sogno erotico: inconcepibile che un divo come Cary Grant non spartisse il suo letto con una divina!). In virtù di una frenetica attività sessuale (anche i maschietti pagavano dazio al divano del produttore), Hollywood ricorda quella sordida sconsideratezza che anima le pagine di un libro cult come Hollywood Babilonia di Kenneth Anger, dove le molte storie oscure altro non sono che il nutrimento della luce irreale dello schermo.
Ma con lo stile ironico e ucronico di Murphy,
Hollywood si capovolge via via in una storia edificante, di riscatti sociali, di discriminazioni redente (ci sono un regista e un’attrice asian american, uno sceneggiatore gay afroamericano, un’attrice afroamericana e un attore gay), di omaggi che i vizi dovrebbero rendere alla virtù, di premi Oscar che avrebbero dovuto mettere tutto a posto, affrancando l’omosessualità, la negritudine, la prostituzione, riparando a tutte le ingiustizie compiute all’interno dello Star System (la cattiveria è equanimemente distribuita). La scrittura è quella del melodramma, con tutta l’enfasi sentimentale che il genere giustamente comporta.