Cultura è lavoro (che va difeso)
La cultura è un lavoro. Non va mai dimenticato. E non lo è solo quello di chi crea.
Èla fatica quotidiana di una platea enorme e silenziosa fatta di macchinisti del cinema, di datori luci del teatro, di fonici dei concerti, di custodi di sala dei musei, di autisti di camion del circo. La cultura è anche questo lavoro. Umile e grande.
Un milione e mezzo di persone sono occupate in questo settore. I talenti milionari, dei quali il Paese ha comunque un gran bisogno, quanti saranno: mille, duemila? Gli altri aspettano con ansia una telefonata che li convochi per truccare un attore, per restaurare un quadro danneggiato o cucire un costume.
La precarietà è connaturata a questo lavoro. Questo meraviglioso lavoro. Che oggi è sterminato dal virus. Musei chiusi, set fermi, concerti impossibili, teatri vuoti, circhi senza pubblico, orchestrali muti, librerie con la mascherina, ballerini senza partner. L’orrenda frase «Con la cultura non si mangia», è diventata una realtà, purtroppo.
Una desolazione che ha esattamente la stessa dignità della crisi spaventosa che sta falcidiando ovunque la creatività e il lavoro italiano. Non di più, non di meno. Un teatro che chiude i battenti è una perdita non meno grave di quella un negozio che tira giù la saracinesca. Perché è lavoro. E oggi, nel mondo culturale, tutto è fermo e non si sa quando mai ripartirà.
La cultura vive del rapporto del tutto originale che si crea tra chi produce e chi consuma. Esistono insieme, solo insieme. Un quadro visto sul computer, uno spettacolo teatrale fruito solo in tv, un concerto di musiche di Rossini o del pianoforte di Keith Jarrett ascoltati su Spotify, un film senza l’emozione della sala e del pubblico, un circo virtuale senza bambini: tutto utile, comunque utile, ma freddo.
Il lavoro della cultura ha bisogno del calore della fruizione collettiva. Per questo bisogna difendere, oggi più che mai, in questa emergenza devastante, la cultura italiana. Bisogna difendere il lavoro culturale. Quello degli elettricisti e quello degli autori, che sono in fondo la stessa cosa. Non esistono, né l’uno né l’altro, se non in un rapporto di «mutuo appoggio».
Nel 1941, l’anno dell’entrata in guerra degli Usa, Roosevelt registrò una della sue conversazioni radiofoniche dedicandola al cinema e al suo valore economico e civile. E nel New Deal la cultura ebbe un ruolo importante. Due giorni orsono il presidente Macron ha presentato un importante progetto organico sul rilancio della cultura francese articolato attraverso misure di emergenza e interventi strutturali.
Il rischio è che invece il nostro Paese finisca col chiudere una delle sue filiere produttive e identitarie più importanti. Il ministro Franceschini certamente si batte per evitarlo e ha stanziato fondi importanti per i musei. Ma bisognerebbe subito presentare un grande piano nazionale di organizzazione del consumo culturale e di rifinanziamento della sua attività produttiva e di tutela e conservazione del patrimonio. Intanto intervenendo per fermare la chiusura in corso di una miriade di teatri e di sale cinematografiche, di musei e librerie, di circoli culturali e attività di strada e la disperazione di centinaia di migliaia di lavoratori, artisti. Bisognerebbe costringere le grandi piattaforme digitali e chi opera su beni pubblici, come l’etere, a restituire il favore alla comunità sostenendo finanziariamente la produzione culturale nazionale ed europea.
Si potrebbe pensare, lo ha proposto Pierluigi Battista su questo giornale, a un Fondo per la cultura italiana. Bisognerebbe insomma avere il coraggio di smantellare vecchie abitudini e strutture e di percorrere vie nuove, più moderne e trasparenti.
Senza la sua cultura l’italia non sarebbe più l’italia. La cultura è lavoro, è pensiero critico, è libertà, è ricchezza della nazione.
C’è da augurarsi che il presidente del Consiglio voglia evitare che il nostro Paese smarrisca una delle virtù che lo hanno reso grande e unico nel mondo.