LE DOMANDE DI GIOVANNI SULL’ASSASSINIO DEL PADRE
Caro Aldo, non posso negare che provo grande emozione quando qualcuno, in tv o sui giornali, parla di Aldo Moro. Tanti italiani ricordano il suo stile di fare politica, il grande senso civico, l’educazione e il suo spessore di uomo libero. Commemorarlo è e sarà sempre un dovere per questo Paese. Ed è con un senso di sconfitta che continueremo a ricordare il suo assassinio. Una ferita sempre aperta. Massimo Aurioso
Caro Massimo,
In questi anni la persona che a mio giudizio ha custodito meglio la memoria di Aldo Moro è suo figlio Giovanni. L’ho intervistato e ho letto i suoi libri. In sintesi, il suo pensiero è questo. «Pressoché tutti i sequestri organizzati da gruppi terroristi prima e dopo la vicenda Moro (Sossi, Cirillo, Dozier, D’urso) sono stati risolti in uno dei due modi che furono invece evitati nel caso di mio padre: o attraverso la trattativa, o liberando l’ostaggio». Per il presidente della Dc, sostiene il figlio, non fu fatta né una cosa né l’altra: Moro fu perduto «da una non-decisione», in cui si cumulano l’inerzia e l’inefficienza. Posso aggiungere che Francesco Cossiga arrivò ad ammettere più o meno la stessa cosa: a un certo punto lo Stato considerò Moro perduto. La famiglia Moro ha sempre avuto un giudizio severo verso l’ex capo dello Stato; ma ancora più severo è forse quello su Giulio Andreotti, accusato di aver «mentito spudoratamente, dicendo che una delle vedove di via Fani aveva minacciato di darsi fuoco in piazza se si fossero aperte qualsivoglia trattative» senza specificarne il nome; perché «quella vedova non esisteva». Conclude Giovanni Moro: «Posso dire di non avere ancora capito bene (al di là delle sedute spiritiche e delle spiegazioni idrauliche) che cosa successe precisamente attorno al covo di via Gradoli; di non essere affatto convinto che i terroristi ci abbiano detto tutto (semmai tutto e il suo contrario), e di non accettare che siano loro a decidere che quanto non è noto riguardi solo “particolari irrilevanti”; di essere curioso di conoscere quale ruolo abbiano avuto nel sequestro soggetti rimasti sullo sfondo come il brigatista Senzani o ancora i vari latitanti all’estero; di non essere affatto convinto che i nostri servizi di informazione dell’epoca — per comodità di solito descritti come una specie di Club di Topolino — non siano stati in grado di svolgere una sufficiente attività di intelligence prima, dopo e soprattutto durante il sequestro».
Sono tutte domande ancora aperte.