La famiglia le fa festa «Orgogliosi»
Il papà un passo indietro in lacrime, la mamma che si disperava («Non è una a cui dire che fare») ora frastornata di gioia. L’abbraccio della sorella Giulia
Un incontro atteso 535 giorni quello tra Silvia e i suoi cari (nelle foto l’abbraccio con la madre e l’inchino del padre).
Che ogni famiglia sia felice a modo suo, si vede dall’abbraccio a Ciampino. Davanti Francesca e Giulia, la mamma e la sorella. Qualche passo indietro il papà, Enzo. Loro ad abbracciare Silvia in un gemito di pianto, una felpa con la scritta «Arizona» che si struscia sul jilbab verde islamico. Lui a dedicarle un inchino, sulla camicia bianca il gilet di raso blu che s’usa nelle serate da musicisti. La mamma che alle amiche confidava «la Silvia è una a cui non puoi dire cosa fare».
Il papà che non ha mai smesso di crederci («so che tornerà», diceva a settembre), ha sempre portato la chitarra alle serate benefiche per l’ong Africa Milele, a Natale s’è commosso nel circolo Acli di Lambrate mentre cantava John Lennon e «So this s Christmas» e intanto scorrevano le immagini di Silvia, mai ha nascosto su Facebook la sua ammirazione per le scelte difficili della figlia: «Sei una grande!... Stai dimostrando di non piegarti… Straorgoglioso di te!». Ora tutt’insieme, a distanza di sicurezza e non solo per il Covid, tutti ad accogliere una ragazza rinata dal nulla, ritrovata in una nuova fede. «Serve un grande rispetto per ogni sua decisione», si raccomanda il parroco del Casoretto, don Enrico Parazzoli: «Silvia ha rischiato ogni giorno la vita. S’è chiesta ogni giorno se avrebbe visto il domani. Nessuno di noi sa cosa vuol dire essere rapiti. E poi il concetto di conversione, per l’islam, è una sorta di contratto: t’impegni a osservare determinate regole e questo ti garantisce una sorta di protezione…».
Qualcuno li aveva avvertiti, prima che atterrasse l’aereo dell’aise da Mogadiscio, e forse i Romano sono i meno stupiti di tutti. «Persone umili, famiglia semplice», riassume un amico che li conosce bene: quel che serve per riavere una Silvia che non sembra più la
Il parroco «La conversione, per l’islam, è una sorta di contratto che garantisce protezione»
stessa o, forse, si mostra per quel che è sempre stata. Se c’è una cosa che ha tenuto unita la famiglia in questi 535 giorni senza notizie, persone come tante che vivevano sparpagliate dalle separazioni e dai diversi percorsi, questa cosa è stata il silenzio. Assoluto. Mai scortesi, sempre fermi nell’appartamento di via Casoretto, vecchia periferia operaia del nord est milanese; come nella casa dove Enzo viveva con la nuova compagna, Cris; nella sistemazione di Giulia prima a Londra, poi nel grande albergo milanese dov’era tornata a lavorare. «Mi attengo alla riservatezza che mi hanno chiesto», rispondeva ogni volta mamma Francesca Fumagalli. «Mi consulto col resto della famiglia, ma so già che non parliamo», ripeteva sempre Romano papà. «Non fatemi dire nulla», chiudeva regolarmente la sorella.
Ora parla per loro un’amica recente che Silvia e la madre hanno conosciuto tre anni fa, in vacanza a Capoverde: «Non mi ha fatto effetto vederla con l’abito somalo — dice Daniela Todarello —. È sempre stata una ragazza che sa adeguarsi all’ambiente che la circonda». Il loro gruppo d’amicizia si chiama «No stress» ed è questo, pensa Daniela, che i Romano chiedono dopo un anno e mezzo d’incubo: «Conosco molto bene la mamma — confida Paolo, amico di famiglia —, all’inizio di questa storia era molto provata...». Nell’attesa a Milano, esce l’album con le foto dei ricordi: Silvia a 14 anni con la neve, in gita a Parigi, nel pratone con la cagnetta Alma… «Sono sicura — dice una vecchia compagna di scuola —, quand’era là Silvia ha ripensato a quei momenti. L’hanno aiutata a sopravvivere».