Carlo Conti e i David, l’impressione di un corpo estraneo
M a cosa c’entra Carlo Conti con il cinema? Più di tutte le altre considerazioni (e ce ne sarebbero molte), è questa la domanda che più premeva guardando la cerimonia di premiazione dei David di Donatello, in onda su Rai1 venerdì sera. Sulla serata sono già state fatte alcune riflessioni, ma qui interessa osservarla da un punto di vista strettamente televisivo. Come noto, l’emergenza sanitaria ha costretto a riorganizzare l’evento secondo la nuova grammatica televisiva Covid: conduttore da solo in studio, ospiti collegati in videochiamata da casa, come in una qualunque riunione di lavoro che in molti di noi stanno sperimentando in queste settimane. Sopra in smoking, sotto non è dato saperlo. Non che in passato ci siano stati fulgidi esempi di come trasformare questa cerimonia in uno spettacolo (non siamo in America, dove gli Emmy Awards diventano un evento tv godibile oltre che una premiazione). Già questi momenti non sono particolarmente nelle nostre corde di scrittura televisiva, ma quest’anno la sfida era praticamente impossibile. Era sicuramente importante, per molte ragioni soprattutto simboliche, tenere in calendario l’appuntamento, ma togliendo alla cerimonia le sue componenti rituali, come il red carpet o gli abiti di gala, affidando le emozioni dei premiati e la delusione degli sconfitti a connessioni internet precarie, non si può certo pretendere gran che. Restano solo l’inevitabile retorica dei discorsi, l’infilata dei ringraziamenti, le mogli, gli scontati auguri di pronta ripresa a un settore gravemente penalizzato dalla crisi in questi ultimi mesi, la mestizia del tutto. Proprio per questo forse si poteva ipotizzare una conduzione diversa, più addentro alle dinamiche cinematografiche, in grado di cogliere i riferimenti e porre domande più spontanee. Carlo Conti ha portato a casa una serata non facile, ma è difficile cancellare l’impressione del corpo estraneo.