Corriere della Sera

Silvia: ora sono libera e ho bisogno di tempo

La madre: chi non si convertire­bbe dopo due anni così?

- Andreis, Battistini Galluzzo, Giuzzi Rebotti, Sarzanini

Le parole sono affidate alla mamma, allo zio, ai parenti più stretti, ma è come se le pronuncias­se lei: Silvia Romano — la cooperante di 24 anni, sequestrat­a in Africa per 18 mesi e liberata sabato scorso— «sono tornata a vivere». Ora c’è «bisogno di tempo». Di far decantare un’esperienza traumatica che qualche cicatrice è destinata a lasciare. Sulla conversion­e della ragazza la madre è esplicita: chi non si sarebbe convertito dopo due anni passati così?

MILANO Silvia indossa pantaloni blu di una tuta, un vestito scuro a fiori e una felpa sportiva. Ai piedi un paio di Superga nere e a cingere il capo un hijab realizzato con una pashmina rossa, arancione e dorata. Sale i cinque gradini di casa e sparisce verso l’ascensore. Accanto a lei c’è la madre Francesca che come a proteggerl­a le poggia una mano sulla schiena mentre apre la porta.

Non sorride, e neppure ne ha il tempo. Anche perché è appena tornata da un interrogat­orio durato quasi un’ora e mezza nella caserma di via Lamarmora del Ros dei carabinier­i. Mancano pochi minuti alle 18 di una giornata che fino a lì aveva trascorso in casa senza mai alzare le tapparelle. Con la sua famiglia, con il papà che dopo pranzo arriva a trovarla, con i fiori che per tutta la mattina vengono portati dai fiorai della zona.

Fiori di amici, di compagni di scuola e di viaggio che per rispetto e per pudore non osano rompere la fragile serenità del suo secondo giorno di libertà milanese.

Perché Silvia Romano da sabato non è più nelle mani dei rapitori, ma al suo rientro in Italia ha dovuto affrontare una prova altrettant­o dura che lei, con i suoi 24 anni e i sogni violati di ragazza, non avrebbe mai immaginato di vivere. Non qui almeno, nella sua Milano. Dove oggi esce di casa per andare a testimonia­re dai carabinier­i che indagano sulle minacce di morte che, senza che neppure lo sapesse, le sono piovute addosso da tutta Italia. La sua «colpa» è quella di essersi convertita, di avere sceso la scaletta dell’aereo con uno jilbab, l’abito tradiziona­le islamico delle donne somale, diventato oggi quasi il simbolo di un alto tradimento per una nazione che le ha salvato la vita e pagato un riscatto.

È la mamma Francesca Fumagalli, quando nel primo pomeriggio scende a portare il cagnolino ai giardini di piazza Durante, a chiudere con una frase tutte le polemiche che in queste ore sono esplose sulla scelta religiosa della figlia: «Come vuole che stia? Provate a mandare un vostro parente due anni là e voglio vedere se non torna convertito», dice con un moto di esasperazi­one. Chiede di «usare il cervello» di fronte alle scelte di vita di una ragazza che per 18 mesi è rimasta nelle mani feroci dei rapitori fondamenta­listi di Al-shabaab. Silvia chiede «tempo». Tempo per «ritrovare se stessa» e anche la sua libertà: «Datemi tempo per elaborare quello che è successo in questi mesi. Tempo tranquillo per ritrovarmi», dice ai familiari. Lo zio Alberto, fratello della mamma, è ancora scosso come tutta la famiglia dallo «tsunami di odio» arrivato dal web: «Bisogna avere rispetto per quello che ha passato Silvia e per quello che è come persona —ripete —. Adesso Silvia ci chiede molto umanamente e con semplicità queste cose. E noi tutti gliele dobbiamo regalare.

Ha vissuto situazioni che neanche possiamo immaginare e di cui ancora non riesce a parlare con noi».

Davanti al pm Alberto Nobili, capo del pool Antiterror­ismo,

La madre Francesca: «Come vuole che stia? Provate a mandare un vostro parente due anni là. E voglio vedere se non torna convertito»

e al tenente colonnello Andrea Leo del Ros di Milano, Silvia Romano dice di essere «serena», di non avere paura per le minacce. Racconta di essere contenta per la sua liberazion­e, di essere tornata a casa con la mamma e la sorella Giulia. E quei messaggi di odio non sa da dove provengano. La privacy del suo profilo social è stata rafforzata contro gli haters. In queste ore non ha letto i giornali, non ha guardato le trasmissio­ni televisive che mostravano le immagini di lei, in mezzo a un fiume di fotografi e telecamere, mentre varcava la porta di casa. «L’abbiamo tutelata», dice la famiglia. La madre Francesca non sa ancora quando «Silvia sarà pronta per parlare, per una conferenza stampa»: «Per adesso deve fare la quarantena sanitaria, lasciateci tranquilli in queste due settimane».

In casa Silvia-aisha riposa e prega in questi giorni di Ramadan. Accanto a lei ha l’affetto di chi sta facendo ogni sforzo per proteggerl­a. «È una ragazza di 24 anni, ma è come se non avesse mai vissuto gli ultimi due. Ora deve ritrovarsi e recuperare la sua vita».

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