Infermieri, la fatica e il coraggio
«Ogni donna è un’infermiera» scrisse Florence Nightingale. Lo si è visto di nuovo in queste settimane tremende: ancora una volta le madri, le sorelle, le figlie sono state costrette a sobbarcarsi gran parte delle fatiche sul fronte del virus e della quarantena. Ieri, nella Giornata internazionale dell’infermiere, papa Francesco ha ricordato la «testimonianza di coraggio e di sacrificio degli operatori sanitari».
«Ogni donna, o almeno quasi ogni donna, una volta o l’altra nella sua vita, deve farsi carico della salute di qualcuno, bambino o invalido che sia. In altre parole, ogni donna è un’infermiera», scrisse un secolo e mezzo fa Florence Nightingale, considerata un po’ la «madre di tutte le infermiere», nel libro Notes of Nursing, ora ripubblicato in italiano dalla Casa Editrice Ambrosiana e da Zanichelli col sottotitolo «Cenni sull’assistenza degli ammalati». Aveva ragione. Lo si è visto di nuovo in queste settimane tremende: ancora una volta le madri, le sorelle, le figlie, che già portano il peso più gravoso dell’assistenza ai disabili in famiglia, con una funzione di supplenza alle carenze della sanità pubblica, sono state costrette a sobbarcarsi gran parte delle fatiche sul fronte del virus e della quarantena. Ieri, Giornata internazionale dell’infermiere, data scelta proprio per celebrare il bicentenario di Florence, nata il 12 maggio 1820 a Firenze, dove vivevano il padre William (grande epidemiologo) e la madre, l’ha citata anche papa Francesco. Il quale, pregando per tutti quelli che «sono morti nel fedele compimento del loro servizio» ha ricordato quanto ogni giorno «assistiamo alla testimonianza di coraggio e di sacrificio degli operatori sanitari, in particolare delle infermiere e degli infermieri, che con professionalità, abnegazione, senso di responsabilità e amore per il prossimo assistono le persone affette dal virus, anche a rischio della propria salute». Era una donna formidabile, la Nightingale, che un celebre quadro di Henrietta Rae ritrae come «la Signora con la lanterna», per l’infaticabile generosità mostrata nella guerra di Crimea quando girava anche di notte, con la lampada a olio, tra i letti dei feriti. Fu lì, a Scutari, sulla sponda orientale del Bosforo, costretta a operare in condizioni disastrose («Tutto brulicava di parassiti: enormi pidocchi strisciavano su persone e vestiti. Molti [soldati] erano sporchi di fango, sangue e polvere da sparo. Molti erano prostrati da febbre e dissenteria...», scrisse inorridito un giovane assistente chirurgo), che capì tra i primi quanto fosse importante combattere le infezioni sul fronte dell’igiene. Per lasciare a medici e infermieri un monito fondamentale: «Il primo requisito di un ospedale dovrebbe essere quello di non far del male ai propri pazienti».
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