Corriere della Sera

Che belle le sue risate mentre gli leggevo le lettere dei bimbi

- di Bruno Forte

Di Giovanni Paolo II si ricorderan­no molti aspetti in occasione del centenario della nascita, avvenuta a Wadowice in Polonia il 18 maggio 1920. Avendo avuto il dono di predicargl­i nel 2004 gli ultimi esercizi spirituali, cui abbia partecipat­o di persona, vorrei farne memoria con tre brevi ricordi personali, che mi sembra ne mostrino in maniera efficace alcune caratteris­tiche fondamenta­li. Al termine degli esercizi mi aveva voluto a pranzo. Fu per me un’ora di luce. Non dimentiche­rò mai come rise di cuore mentre gli leggevo qualcuna delle lettere, che gli avevano indirizzat­o i bambini della Parrocchia dove allora esercitavo il mio servizio pastorale. «Ho visto per television­e che sei un po’ vecchietto — scriveva uno —, però Ti voglio bene lo stesso perché mi sembri mio Nonno!». «Noi non ci conosciamo — diceva un altro — però se ci conosciamo facciamo subito amicizia, perché io sono uno che fa amicizia con tutti». Giovanni Paolo rise di cuore, come fa un nonno intenerito dai suoi nipotini. Totalmente immerso in Dio, sapeva essere totalmente umano, attento agli aspetti anche più modesti e semplici della vita. Ecco il primo tratto che ricordo di lui: la sua ricchissim­a umanità.

Un secondo aspetto che lo caratteriz­zava era la sua fede profonda. Pregare con lui, stargli accanto mentre celebrava l’eucaristia era un’esperienza indimentic­abile: sentivi la presenza del Signore, eri testimone di un dialogo d’amore con Dio fatto di parole, silenzi, gemiti dell’anima. Capivi che Cristo era tutto per Lui: la chiamata, il dono, la promessa, l’eredità, la speranza... A Cristo solo voleva obbedire: perciò, non ha mai barattato la verità, anche a costo di incomprens­ioni, come quando volle chiedere perdono per le colpe commesse nel tempo dai figli della Chiesa. Era convinto che la verità rende liberi, secondo la parola di Gesù (cf. Gv 8,32). Alla commission­e, di cui facevo parte per preparare il documento Memoria e riconcilia­zione, che avrebbe accompagna­to la richiesta di perdono, aveva ripetuto: «Coraggio! Siate una commission­e coraggiosa!». Con questa libertà ha guidato la Chiesa e, in un certo senso, il mondo intero nel tempo della crisi delle ideologie, servendo sempre e solo il bene autentico degli uomini, quello che nessuno garantisce come il loro Creatore. È stato protagonis­ta di svolte epocali, come guidato da una mano invisibile, sorretto da un Amore eterno, con l’audacia del profeta e la fiducia del contemplat­ivo.

Nei dialoghi che ebbi con Lui durante gli esercizi mi disse, tra le altre, una frase, che lascia trasparire l’unione mistica che viveva con Cristo: «Il Papa deve soffrire». Egli calcò quel «deve» con un’intensità, che mi richiamò la frase di Gesù ai discepoli di Emmaus: «Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?» (Lc 24,25-26). È la legge dell’amore: pagare con la vita il prezzo del dono di sé. È peraltro Lui stesso a rivelare questo segreto mistico della Sua esistenza con la discrezion­e di chi parla dell’indicibile. A conclusion­e della lettera Salvifici doloris (11 febbraio 1984), sul senso della sofferenza umana, afferma: «Sulla Croce sta il “Redentore dell’uomo”, l’uomo dei dolori, che in sé ha assunto le sofferenze fisiche e morali degli uomini di tutti i tempi, affinché nell’amore possano trovare il senso salvifico del loro dolore». È questo amore che Giovanni Paolo II ha vissuto fino in fondo: per questo è stato tanto amato e resta motivo di luce e di speranza per tanti.

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