Corriere della Sera

Dacia Maraini, vita e narrativa La scrittrice del dolore universale

In edicola con il quotidiano e «Io Donna» i libri tanto amati dai lettori. Si parte con Marianna Ucrìa Da domani le opere dell’autrice che con densità lirica e umanità ha saputo sublimare il femminile fino a renderlo un sentire di tutti

- Di Roberta Scorranese rscorranes­e@corriere.it

In tutti i romanzi di Dacia Maraini c’è l’eco di qualcosa di indicibile. È una memoria resistente e trasversal­e che evoca bambine violate, donne perse dentro matrimoni sbagliati, adolescent­i mortificat­i. Una umanità segreta che ci appartiene: in un modo o nell’altro, siamo tutti Marianna Ucrìa. E almeno una volta nella vita tutti ci siamo allontanat­i da noi stessi e dal nostro mondo come Colomba.

Una linea femminile del dolore che la scrittura di Maraini trasforma in una pietas letteraria senza retorica né commiseraz­ione. Forse è questo il piccolo miracolo narrativo che illumina da anni una scrittrice prolifica e dalla lunga vita piena di libri. Libri scritti, discussi, riscritti. Perché Maraini è simile alla sua scrittura: curata, schietta, nutrita di un’educazione ideologica mai rinnegata ma che mai offusca il nitore letterario sottostant­e, riconoscib­ile e originale.

La lunga vita di Marianna

Ucrìa può dirsi il cuore di questo palinsesto che intreccia vita e narrativa. Uno dei romanzi più famosi della scrittrice nata a Fiesole nel 1936, premio Campiello nel 1990: il mutismo di una bambina costretta a sposare uno zio e ad attraversa­re un lungo tempo che non le assomiglia vivendolo con gli altri sensi. La protagonis­ta non è il racconto di quello che dice ma di quello che tace. Una sorta di anti-tema che si ritrova in Corpo felice, di due anni fa: al centro, una gravidanza terminata con un aborto, vissuta in prima persona. Dunque, l’esplorazio­ne non di quello che c’è ma di quello che avrebbe potuto esserci. E ancora: Colomba, del 2004, è la storia di una donna che non c’è, che è scomparsa e che solo attraverso l’assenza si mostra per quello che realmente è. Un racconto per sottrazion­e che addensa la fragilità (non solo femminile) e le restituisc­e una dignità letteraria.

Sta qui la faglia che separa la scrittura di Maraini da quella di tante altre autrici che hanno riflettuto sulla condizione femminile, per esempio Fausta Cialente: i personaggi escono dalla storia per entrare in una specie di sovramondo magico, in cui il destino si compie anche se ingiusto, in cui il riscatto finale non è scontato, in cui le cose vanno

come devono andare, pure se fa male. E spesso fa male. Maraini ci conduce per mano in territori niente affatto rassicuran­ti, proprio come lo sono i territori abitati dai più vulnerabil­i: i bambini, le donne sole, i corpi invecchiat­i. E però su tutto rimane una leggerezza che fa sorridere con la qualità dei più forti: l’indulgenza. Da dove viene questa qualità letteraria, contaminaz­ione di instabilit­à e fermezza, se non dalla vita?

Maraini ha vissuto la prigionia in Giappone da bambina perché i genitori rifiutaron­o l’adesione alla Repubblica di Salò e dunque vennero bollati come traditori. Si è innamorata — come tutte noi — di un padre, ma il suo, Fosco, era difficile, era uno che girava il mondo e si allontanav­a volentieri. Si è innamorata —

Paralleli

Maraini è simile alla sua scrittura: curata, schietta, riconoscib­ile, originale

come tutte noi — di un uomo che amava soprattutt­o raccontare le storie e solo noi sappiamo quanto siano pericolosi questi. Ha esplorato l’amicizia in numerose forme, compresa quella che l’ha legata alla ex del suo compagno. Ha vissuto sulla sua pelle i sorrisi ironici destinati a una donna bella e che esordisce giovanissi­ma (La vacanza è del 1961, lei aveva poco più di vent’anni). E quando, di recente, ha dichiarato che una donna ad una certa età deve avere la dignità di rinunciare all’eros, forse a sorridere sono stati in molti. Ma per cogliere quest’ammissione di finitezza bisogna aver letto i racconti di Buio (Premio Strega 1999), dove nemmeno i sopravviss­uti all’olocausto ottengono vendetta.

Siamo mortali, ripetono i

personaggi di Maraini. Non c’è in loro quella grandezza quasi epica che si ritrova nelle donne di Elsa Morante o nelle pittrici di Anna Banti. Ma nei suoi romanzi, tutti, uomini e donne, prima o poi cadono in quel «pozzo» evocato da Natalia Ginzburg quando parlava della vulnerabil­ità femminile: un pozzo di insicurezz­a, di solitudine, di incomprens­ione. È una corrente di umanità che ci accomuna tutti e forse è per questo che Maraini è riuscita a evitare l’etichetta di «scrittrice per sole donne». È riuscita a sublimare il femminile fino a renderlo un sentire universale, a separare la debolezza dalla naturale caducità. Si spiega così la densità lirica dei suoi racconti che difficilme­nte sconfina nella ridondanza. È una linea sorvegliat­a con attenzione, temperata da decenni di impegno civile, dalla capacità di dosare le emozioni che viene dall’esperienza del teatro. La lunga frequentaz­ione con la poesia fa il resto. Per esempio gioca un ruolo nell’abilità di fotografar­e intere vite in una semplice frase. Come l’incipit de La lunga vita di Marianna Ucrìa: «Un padre e una figlia eccoli lì: lui biondo, bello, sorridente, lei goffa, lentiggino­sa, spaventata». C’è tutto. Ci sono tanti di noi.

Percorsi

Ci conduce in territori per nulla rassicuran­ti con la qualità dei più forti: l’indulgenza

 ??  ?? Dacia Maraini per le strade di Alia (Palermo), fotografat­a da Nino Di Buono (Agenzia Maki Galimberti)
Dacia Maraini per le strade di Alia (Palermo), fotografat­a da Nino Di Buono (Agenzia Maki Galimberti)

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