Dacia Maraini, vita e narrativa La scrittrice del dolore universale
In edicola con il quotidiano e «Io Donna» i libri tanto amati dai lettori. Si parte con Marianna Ucrìa Da domani le opere dell’autrice che con densità lirica e umanità ha saputo sublimare il femminile fino a renderlo un sentire di tutti
In tutti i romanzi di Dacia Maraini c’è l’eco di qualcosa di indicibile. È una memoria resistente e trasversale che evoca bambine violate, donne perse dentro matrimoni sbagliati, adolescenti mortificati. Una umanità segreta che ci appartiene: in un modo o nell’altro, siamo tutti Marianna Ucrìa. E almeno una volta nella vita tutti ci siamo allontanati da noi stessi e dal nostro mondo come Colomba.
Una linea femminile del dolore che la scrittura di Maraini trasforma in una pietas letteraria senza retorica né commiserazione. Forse è questo il piccolo miracolo narrativo che illumina da anni una scrittrice prolifica e dalla lunga vita piena di libri. Libri scritti, discussi, riscritti. Perché Maraini è simile alla sua scrittura: curata, schietta, nutrita di un’educazione ideologica mai rinnegata ma che mai offusca il nitore letterario sottostante, riconoscibile e originale.
La lunga vita di Marianna
Ucrìa può dirsi il cuore di questo palinsesto che intreccia vita e narrativa. Uno dei romanzi più famosi della scrittrice nata a Fiesole nel 1936, premio Campiello nel 1990: il mutismo di una bambina costretta a sposare uno zio e ad attraversare un lungo tempo che non le assomiglia vivendolo con gli altri sensi. La protagonista non è il racconto di quello che dice ma di quello che tace. Una sorta di anti-tema che si ritrova in Corpo felice, di due anni fa: al centro, una gravidanza terminata con un aborto, vissuta in prima persona. Dunque, l’esplorazione non di quello che c’è ma di quello che avrebbe potuto esserci. E ancora: Colomba, del 2004, è la storia di una donna che non c’è, che è scomparsa e che solo attraverso l’assenza si mostra per quello che realmente è. Un racconto per sottrazione che addensa la fragilità (non solo femminile) e le restituisce una dignità letteraria.
Sta qui la faglia che separa la scrittura di Maraini da quella di tante altre autrici che hanno riflettuto sulla condizione femminile, per esempio Fausta Cialente: i personaggi escono dalla storia per entrare in una specie di sovramondo magico, in cui il destino si compie anche se ingiusto, in cui il riscatto finale non è scontato, in cui le cose vanno
come devono andare, pure se fa male. E spesso fa male. Maraini ci conduce per mano in territori niente affatto rassicuranti, proprio come lo sono i territori abitati dai più vulnerabili: i bambini, le donne sole, i corpi invecchiati. E però su tutto rimane una leggerezza che fa sorridere con la qualità dei più forti: l’indulgenza. Da dove viene questa qualità letteraria, contaminazione di instabilità e fermezza, se non dalla vita?
Maraini ha vissuto la prigionia in Giappone da bambina perché i genitori rifiutarono l’adesione alla Repubblica di Salò e dunque vennero bollati come traditori. Si è innamorata — come tutte noi — di un padre, ma il suo, Fosco, era difficile, era uno che girava il mondo e si allontanava volentieri. Si è innamorata —
Paralleli
Maraini è simile alla sua scrittura: curata, schietta, riconoscibile, originale
come tutte noi — di un uomo che amava soprattutto raccontare le storie e solo noi sappiamo quanto siano pericolosi questi. Ha esplorato l’amicizia in numerose forme, compresa quella che l’ha legata alla ex del suo compagno. Ha vissuto sulla sua pelle i sorrisi ironici destinati a una donna bella e che esordisce giovanissima (La vacanza è del 1961, lei aveva poco più di vent’anni). E quando, di recente, ha dichiarato che una donna ad una certa età deve avere la dignità di rinunciare all’eros, forse a sorridere sono stati in molti. Ma per cogliere quest’ammissione di finitezza bisogna aver letto i racconti di Buio (Premio Strega 1999), dove nemmeno i sopravvissuti all’olocausto ottengono vendetta.
Siamo mortali, ripetono i
personaggi di Maraini. Non c’è in loro quella grandezza quasi epica che si ritrova nelle donne di Elsa Morante o nelle pittrici di Anna Banti. Ma nei suoi romanzi, tutti, uomini e donne, prima o poi cadono in quel «pozzo» evocato da Natalia Ginzburg quando parlava della vulnerabilità femminile: un pozzo di insicurezza, di solitudine, di incomprensione. È una corrente di umanità che ci accomuna tutti e forse è per questo che Maraini è riuscita a evitare l’etichetta di «scrittrice per sole donne». È riuscita a sublimare il femminile fino a renderlo un sentire universale, a separare la debolezza dalla naturale caducità. Si spiega così la densità lirica dei suoi racconti che difficilmente sconfina nella ridondanza. È una linea sorvegliata con attenzione, temperata da decenni di impegno civile, dalla capacità di dosare le emozioni che viene dall’esperienza del teatro. La lunga frequentazione con la poesia fa il resto. Per esempio gioca un ruolo nell’abilità di fotografare intere vite in una semplice frase. Come l’incipit de La lunga vita di Marianna Ucrìa: «Un padre e una figlia eccoli lì: lui biondo, bello, sorridente, lei goffa, lentigginosa, spaventata». C’è tutto. Ci sono tanti di noi.
Percorsi
Ci conduce in territori per nulla rassicuranti con la qualità dei più forti: l’indulgenza