E se cenassimo alle 18.30?
Orari fluidi, déhors anche d’inverno, niente plexiglas: le ricette di Vudafieri per i ristoranti
Invitanti e accoglienti, per far sentire bene il proprio ospite. Che i ristoranti da tempo puntassero, per accattivare, su stile e atmosfera degli interni quasi più che sulle portate, era un dato di fatto. Ora, conclusa la serrata per il Covid-19, la loro rinascita riparte irta di precauzioni e nel dibattito su come renderli sicuri e di nuovo meta piacevole dei nostri pranzi e cene. Divisori trasparenti, rarefazione dei tavoli, lontananza tra gli stessi commensali evocano un paesaggio ben lontano dal sembrare attraente. Per questo il tema vero ora diventa come modificare la loro architettura mantenendo la bellezza e l’identità.
Ne abbiamo parlato con l’architetto Tiziano Vudafieri, che con il socio Claudio Saverino ha progettato gli interni di molti ristoranti milanesi, con il doppio binario dato dal fatto che alcuni di questi luoghi sono anche di sua proprietà. Banco di sperimentazione è proprio l’ultimo, Røst, un bistrot di soli 36 posti dagli interni color mattone, inaugurato tre mesi prima del lockdown e in riapertura fisica in questi giorni. «Le regole chiedono il distanziamento tra i tavoli che per noi significa riduzione della capienza quasi a metà», premette Vudafieri. Lui però guarda già oltre, con un pensiero laterale basato sul cambio delle modalità d’uso: «Prima di tutto punterei su quella che definisco “desincronizzazione”, ovvero creare la voglia di frequentare il ristorante in vari momenti della giornata». Si tratta, secondo lui, di innestare consuetudini nuove: «Per esempio, cenare alle 18:30, per poi rientrare a vedere la tv o andare al cinema, oppure alle 21:30 finendo la serata al cocktail bar. Toccherà a noi rendere attrattive le proposte del ristorante in ore diverse da quelle classiche». Un modo per recuperare i posti persi, senza che gli avventori nemmeno lo percepiscano.
Ma c’è di più: «Tutti noi ristoratori saremo incentivati all’uso delle aree esterne davanti al locale. Sarà l’occasione per abbattere anche l’abitudine tutta italiana di cenare al chiuso già in autunno, esattamente al contrario del nord Europa che vive fuori tutto l’anno», riflette Vudafieri. «Così si creerebbe più dialogo con la città. Iniziando a precorrere un futuro in cui avremo poche auto, meno aree di parcheggio e quindi molte più strade da vivere. Recuperando una nuova dimensione urbana, più umana e sociale».
Insomma, ristoranti fluidi: verso l’esterno e durante la giornata. E l’arredo? Banditi i separatori in plexiglas («Ho visto persino circolare progetti di cloche calate al soffitto: microcellule pesanti, calde, respingenti. E costosissime»), la soluzione più semplice sarà ripensare il layout dei tavoli: «Ruotati tra loro di 90 gradi, perché i clienti si diano le spalle e non siano mai frontali nemmeno con chi è seduto in quello accanto». Al posto delle paratie trasparenti, meglio i paraventi: «Ben inseribili nell’arredo. Ideali, se rivestiti in tessuto o carte da parati materiche, per calibrare l’acustica. Con un effetto “privè”: meno sociale con i vicini di tavolo ma piacevolmente intimo con i commensali». Di sicuro, nel tempo, negli spazi sarà integrata più tecnologia: «Bagni con funzionalità elettroniche, eliminando qualsiasi bottone. Stesso concetto per le porte».
Tutto diverso l’approccio in Cina, ci conferma Vudafieri, al lavoro là sull’interior di 3 nuovi ristoranti a Shanghai: «I progetti erano stati modificati esattamente in questo modo, ma il proprietario ha deciso di tornare agli interni decisi pre Covid. I cinesi sono pragmatici e stiamo constatando come la fase 2 dei ristoranti – con distanze, mascherine per il personale, sacchetti per riporre quelle dei clienti – dopo oltre 2 settimane per loro sia già stata superata». Forse potrebbe essere un eccesso di ottimismo. Oppure un augurio di buon auspicio, da cui (con i debiti distinguo) farsi ispirare.
Il layout
«Tavoli ruotati tra loro di 90 gradi, paraventi. E un aiuto dai dispositivi elettronici»