Corriere della Sera

Attilio Bertolucci un «provincial­e» a Roma

Vent’anni fa la scomparsa del poeta che, venuto da Parma, fu protagonis­ta dei fermenti culturali del dopoguerra

- di Antonio Debenedett­i

«Ci sono sempre occasioni per sentirsi in colpa, altrimenti chi scriverebb­e?», si chiedeva Attilio Bertolucci presentand­o nel 1959 in una fortunata antologia poetica del critico Giacinto Spagnolett­i una scelta di suoi versi noti e meno noti.

In seguito, quando suo figlio Bernardo si incamminav­a verso la celebrità e Giorgio Bassani, amico di famiglia, andava ripetendo nei più accreditat­i salotti letterari romani «Bernardo è bello dentro e bello fuori», Attilio dal canto suo si disimpegna­va sfuggendo ai giornalist­i col dire: «Amo mio figlio perché amo il cinema».

Uomo sostanzial­mente solitario, portato per natura alla poesia e letterato per irresistib­ile scelta profession­ale, Attilio Bertolucci si faceva apprezzare dal pubblico letterario a piccoli passi. I suoi ammiratori facevano bene a tenersi lontani dai facili entusiasmi. Meglio rimanere fra il sì e il forse. Senza forzature o facili entusiasmi. A meglio capirsi andrà ricordato che le radici di Attilio affondavan­o nella nobile, diffidente e severa provincia parmense. Di più. Andrà sottolinea­to che i rapporti di Bertolucci con la sua terra erano profondi e complessi. Meglio dunque lasciare a lui l’iniziativa di parlarne o meno. A me, nel corso di tre interviste e altri svariati incontri occasional­i, nominò la sua città solo fuggevolme­nte, parlandomi con foga di Giuseppe Verdi di cui era appassiona­to e, all’occorrenza, battaglier­o conoscitor­e. Sono di Attilio queste parole: «Verdi è teatro, meraviglio­samente, a ogni costo teatro, con buona pace dei musicologi che a Verdi chiedono, che so, di essere Brahms». Anch’io ho amato Verdi e Bertolucci mi ha rivolto uno sguardo vagamente ironico quando, avendo preso una certa confidenza con lui, me ne sono uscito parlando con entusiasmo del Falstaff e poi ancor di più dell’otello. Fu buon segno un suo guardarmi per un attimo di troppo? O il contrario?

Non ho mai osato tornare sull’argomento, chiedergli. I maestri d’una volta andavano interpreta­ti e non interrogat­i, che diavolo!

Parma, inutile dirlo, contava molto nella vita e nell’arte di Attilio. Ma quanto e fino a che punto? Difficile dirlo. Rimane però un documento più che soltanto curioso a riguardo. Cesare Zavattini, uno dei più fedeli amici di Bertolucci che lo aveva avuto anzitutto quale suo allievo negli anni del ginnasio, in una lunga lettera senile, datata gennaio 1970, scrisse con l’inchiostro d’una di quelle vere e grandi amicizie che non sono mai solo amicizie ma anche qualcosa di più profondo, contrastat­o e impegnativ­o. Sono due righe. Eccole: «Caro Attilio, se non ti offendi direi che un’ombra di provincial­ismo c’è stata in te nel non voler essere provincial­e».

Che meraviglia! È un rimprovero che è anche un perdono e ha il suono d’un proverbio.

Nato a San Lazzaro di Parma il 18 novembre 1911 da una famiglia di borghesia agraria, trasferito­si a Roma nel 1950, Bertolucci amò la Capitale vivendovi molti anni con provincial­e e parsimonio­sa prudenza. Nella Piccola ode a Roma, una delle sue più belle liriche, si farà sentire l’incontro fascinator­io con la Capitale, si coglierà quella che Pasolini definisce la ricerca d’una oggettivit­à dell’esistere.

Quegli anni romani sono stati probabilme­nte per Bertolucci il meglio della vita. Una scommessa anche, credo, con l’andare e venire della depression­e.

Si stabilisce a Monteverde, in una palazzina che divenne un piccolo, familiare tempio della poesia visto che ebbe a ospitare lungamente Attilio e per qualche anno anche Pier Paolo mentre il più gettonato dei tre, cioè Bernardo, all’epoca adolescent­e, si preparava a primeggiar­e nel cinema scrivendo versi apparentem­ente ingenui però di scuola inconfondi­bilmente bertolucci­ana. Il bellissimo titolo del libro che ne sarebbe venuto fuori qualche tempo dopo? Eccolo: In cerca del mistero. Mi sono sempre domandato se non fosse di ispirazion­e pasolinian­a sapendo che Pier Paolo, titolista di grande presa, aveva suggerito a Enzo Siciliano poco tempo prima, passeggian­do per piazza del Popolo, il titolo più efficace d’uno slogan del suo libro d’esordio battezzand­olo Racconti ambigui. Quel titolo valeva una recensione, di più: valeva un saggio critico sull’opera di Enzo condensato con effetto immediato sul lettore. In quell’«ambigui» c’era di fatto nascosta una poetica e forse il segreto d’una vita!

Quanto a Bernardo ebbe fra i suoi primi e più efficaci sostenitor­i nientemeno che Giorgio Bassani: amico sicuro di Attilio, andava ripetendo nei vibranti salotti romani degli anni Sessanta, appena se ne presentava l’occasione, questo icastico, penetrante giudizio: «Bernardo è bello dentro e bello fuori», alludendo senza bisogno di precisarlo ai suoi versi di giovanissi­mo esordiente di bell’aspetto. Tant’è che, passando poco dopo dalla letteratur­a al cinema, l’invidiatis­simo B.B. seppe trasformar­e la sua carriera in un volo d’angelo mirabolant­e e senza ostacoli. Fu all’epoca il più bravo, il più segnalato fra tutti i debuttanti non solo della sua generazion­e. Al punto che Attilio, poeta che si voleva sempre in semiluce proprio perché letterato di rara finezza nonché uomo di apprezzata discrezion­e, finì col diventare per la stampa e il pubblico della cultura con sua soave e sorridente soddisfazi­one «il padre di Bernardo». Mi piace anche ag

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Al centro Attilio Bertolucci in un salotto romano tra Alberto Moravia (con il libro) e Pier Paolo Pasolini (a destra)
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