Attilio Bertolucci un «provinciale» a Roma
Vent’anni fa la scomparsa del poeta che, venuto da Parma, fu protagonista dei fermenti culturali del dopoguerra
«Ci sono sempre occasioni per sentirsi in colpa, altrimenti chi scriverebbe?», si chiedeva Attilio Bertolucci presentando nel 1959 in una fortunata antologia poetica del critico Giacinto Spagnoletti una scelta di suoi versi noti e meno noti.
In seguito, quando suo figlio Bernardo si incamminava verso la celebrità e Giorgio Bassani, amico di famiglia, andava ripetendo nei più accreditati salotti letterari romani «Bernardo è bello dentro e bello fuori», Attilio dal canto suo si disimpegnava sfuggendo ai giornalisti col dire: «Amo mio figlio perché amo il cinema».
Uomo sostanzialmente solitario, portato per natura alla poesia e letterato per irresistibile scelta professionale, Attilio Bertolucci si faceva apprezzare dal pubblico letterario a piccoli passi. I suoi ammiratori facevano bene a tenersi lontani dai facili entusiasmi. Meglio rimanere fra il sì e il forse. Senza forzature o facili entusiasmi. A meglio capirsi andrà ricordato che le radici di Attilio affondavano nella nobile, diffidente e severa provincia parmense. Di più. Andrà sottolineato che i rapporti di Bertolucci con la sua terra erano profondi e complessi. Meglio dunque lasciare a lui l’iniziativa di parlarne o meno. A me, nel corso di tre interviste e altri svariati incontri occasionali, nominò la sua città solo fuggevolmente, parlandomi con foga di Giuseppe Verdi di cui era appassionato e, all’occorrenza, battagliero conoscitore. Sono di Attilio queste parole: «Verdi è teatro, meravigliosamente, a ogni costo teatro, con buona pace dei musicologi che a Verdi chiedono, che so, di essere Brahms». Anch’io ho amato Verdi e Bertolucci mi ha rivolto uno sguardo vagamente ironico quando, avendo preso una certa confidenza con lui, me ne sono uscito parlando con entusiasmo del Falstaff e poi ancor di più dell’otello. Fu buon segno un suo guardarmi per un attimo di troppo? O il contrario?
Non ho mai osato tornare sull’argomento, chiedergli. I maestri d’una volta andavano interpretati e non interrogati, che diavolo!
Parma, inutile dirlo, contava molto nella vita e nell’arte di Attilio. Ma quanto e fino a che punto? Difficile dirlo. Rimane però un documento più che soltanto curioso a riguardo. Cesare Zavattini, uno dei più fedeli amici di Bertolucci che lo aveva avuto anzitutto quale suo allievo negli anni del ginnasio, in una lunga lettera senile, datata gennaio 1970, scrisse con l’inchiostro d’una di quelle vere e grandi amicizie che non sono mai solo amicizie ma anche qualcosa di più profondo, contrastato e impegnativo. Sono due righe. Eccole: «Caro Attilio, se non ti offendi direi che un’ombra di provincialismo c’è stata in te nel non voler essere provinciale».
Che meraviglia! È un rimprovero che è anche un perdono e ha il suono d’un proverbio.
Nato a San Lazzaro di Parma il 18 novembre 1911 da una famiglia di borghesia agraria, trasferitosi a Roma nel 1950, Bertolucci amò la Capitale vivendovi molti anni con provinciale e parsimoniosa prudenza. Nella Piccola ode a Roma, una delle sue più belle liriche, si farà sentire l’incontro fascinatorio con la Capitale, si coglierà quella che Pasolini definisce la ricerca d’una oggettività dell’esistere.
Quegli anni romani sono stati probabilmente per Bertolucci il meglio della vita. Una scommessa anche, credo, con l’andare e venire della depressione.
Si stabilisce a Monteverde, in una palazzina che divenne un piccolo, familiare tempio della poesia visto che ebbe a ospitare lungamente Attilio e per qualche anno anche Pier Paolo mentre il più gettonato dei tre, cioè Bernardo, all’epoca adolescente, si preparava a primeggiare nel cinema scrivendo versi apparentemente ingenui però di scuola inconfondibilmente bertolucciana. Il bellissimo titolo del libro che ne sarebbe venuto fuori qualche tempo dopo? Eccolo: In cerca del mistero. Mi sono sempre domandato se non fosse di ispirazione pasoliniana sapendo che Pier Paolo, titolista di grande presa, aveva suggerito a Enzo Siciliano poco tempo prima, passeggiando per piazza del Popolo, il titolo più efficace d’uno slogan del suo libro d’esordio battezzandolo Racconti ambigui. Quel titolo valeva una recensione, di più: valeva un saggio critico sull’opera di Enzo condensato con effetto immediato sul lettore. In quell’«ambigui» c’era di fatto nascosta una poetica e forse il segreto d’una vita!
Quanto a Bernardo ebbe fra i suoi primi e più efficaci sostenitori nientemeno che Giorgio Bassani: amico sicuro di Attilio, andava ripetendo nei vibranti salotti romani degli anni Sessanta, appena se ne presentava l’occasione, questo icastico, penetrante giudizio: «Bernardo è bello dentro e bello fuori», alludendo senza bisogno di precisarlo ai suoi versi di giovanissimo esordiente di bell’aspetto. Tant’è che, passando poco dopo dalla letteratura al cinema, l’invidiatissimo B.B. seppe trasformare la sua carriera in un volo d’angelo mirabolante e senza ostacoli. Fu all’epoca il più bravo, il più segnalato fra tutti i debuttanti non solo della sua generazione. Al punto che Attilio, poeta che si voleva sempre in semiluce proprio perché letterato di rara finezza nonché uomo di apprezzata discrezione, finì col diventare per la stampa e il pubblico della cultura con sua soave e sorridente soddisfazione «il padre di Bernardo». Mi piace anche ag