Corriere della Sera

L’ultimo processo al boss latitante tra certezze e misteri

- Di Giovanni Bianconi

Ventotto anni dopo, per la strage di Capaci c’è un processo ancora aperto. Unico imputato è Matteo Messina Denaro, il capomafia latitante già condannato per le bombe del 1993, ma non ancora per quelle del ‘92. Dopo tre anni di dibattimen­to, il 5 giugno il pm Gabriele Paci, procurator­e aggiunto di Caltanisse­tta, comincerà la requisitor­ia per chiedere alla corte d’assise la condanna dell’ultimo mafioso alla sbarra per la morte di Falcone, sua moglie Francesca Morvillo, i tre poliziotti Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo; e due mesi dopo di Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta.

Il processo all’ultimo padrino di quella stagione di morte rimasto in libertà ha scandaglia­to a fondo i misteri e le varie piste che, in oltre un quarto di secolo, si sono accavallat­e e sommate alle verità accertate sulle responsabi­lità della mafia nella morte di Falcone. Confermand­o i due punti fermi sui quali gli inquirenti nisseni (che dal 2008, dopo le confession­i del pentito Gaspare Spatuzza, hanno riscritto la storia della strage di via D’amelio, e continuano a lavorare, con pochi mezzi e senza clamori, per tentare di colmare i vuoti ancora aperti) hanno fondato la loro ricostruzi­one giudiziari­a. Che ormai è anche storica, considerat­o il tempo trascorso e le conoscenze raggiunte.

Il primo è che quella di Capaci fu una strage di mafia, deliberata da Totò Riina nelre l’ambito delle vendette pianificat­e dopo che gli ergastoli inflitti nel maxi-processo istruito dal pool di Falcone e Borsellino divennero definitivi. Nessuna ipotesi sull’uso di artificier­i diversi dal gruppo di fuoco mafioso ha trovato conferme; anche le più recenti analisi del Dna sui reperti non hanno fatto altro che riscontrar­e una volta di più la presenza dei boss già individuat­i. Per uccidere il magistrato simbolo della lotta alla mafia il boss di Corleone s’è servito anche di Matteo Messina Denaro, «uomo d’onore» in ascesa dopo la morte del padre, inviato a Roma per verificare la possibilit­à di colpiil bersaglio nella capitale. Il «capo dei capi» decise di ucciderlo dopo aver ricevuto rassicuraz­ioni, dagli «ambienti esterni» a Cosa nostra a cui aveva «tastato il polso», che non ci sarebbero state reazioni esagerate da parte delle istituzion­i: le conseguenz­e della strage di Capaci potevano essere ammortizza­te dalle cosche, garantendo comunque un guadagno nel raffronto tra costi e benefici.

E probabilme­nte così sarebbe andata se, a soli due mesi di distanza, non ci fosse stata la bomba di via D’amelio. L’uccisione di Borsellino — è il secondo punto fermo delle conclusion­i raggiunte dalla Procura di Caltanisse­tta — rivitalizz­ò la risposta dello Stato che, passato lo sdegno delle prime settimane, si stava già affievolen­do; rivelandos­i un pessimo affare per Cosa nostra. E ai misteri sulla decisione di Riina di accelerare quell’attentato, si sommano quelli sulle indagini depistate: sempre a Caltanisse­tta è in corso un processo a tre poliziotti accusati di avere manipolato il falso pentito su cui, fino all’entrata in scena di Spatuzza, è stata costruita una falsa verità su quella strage. Ma depistaggi e misteri non si fermano al pentito bugiardo.

Sulla strage di via D’amelio, nulla o quasi si spiega: sia sul versante mafioso che su quello dello Stato. È in questa direzione che prosegue il lavoro dei pm nisseni. Ad esempio continuand­o a indagare sulla morte del boss Vincenzo Milazzo, ucciso cinque giorni prima di Borsellino. Aveva una relazione con una donna imparentat­a con un funzionari­o dei servizi segreti; sapeva dei contatti tra il Gotha di Cosa nostra e ambienti istituzion­ali, ed era contrario al programma stragista di Riina. Che lo fece ammazzare montando «una tragedia» nei suoi confronti, e ordinò di eliminare anche la fidanzata. Fare un po’ di luce su quel delitto potrebbe servire anche a illuminare i lati oscuri sulle bombe che ventotto anni fa fecero tremare la Sicilia, l’italia e il mondo.

Rassicuraz­ioni

Riina diede il via libera alla strage dopo le rassicuraz­ioni da parte di «ambienti esterni»

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