Corriere della Sera

Pietà per la scuola

- Di Alessandro D'avenia

Il 21 maggio del 1972 un uomo, tra le urla, si lanciò con un martello contro la Pietà di Michelange­lo in San Pietro. Prima che un pompiere, in visita alla basilica, riuscisse a bloccarlo aveva già assestato 12 martellate alla statua della Madonna, staccandol­e un braccio e sfigurando­le il volto. Tutti si sentirono feriti nel proprio corpo, perché la bellezza è la memoria viva degli uomini, resa duratura nelle opere del loro agire migliore (politico, artistico, tecnico...). Quel marmo appartiene a me e a voi, come accade con i ricordi di famiglia più intensi. Memoria non è infatti un passato da ripetere per una nostalgia malata, ma vita che non muore, presente continuo che penetra i secoli, frantuma gli orologi e offre all’uomo di tutti i tempi l’energia di cui ha bisogno per rinnovarsi: trasformar­e in vita il dolore di una madre per il figlio morto (la Pietà) è una delle vette della memoria. Così l’opera, come racconta il documentar­io «La Violenza e la Pietà», fu riparata con la cura dovuta alle cose irripetibi­li e le sue cicatrici testimonie­ranno per sempre che noi siamo o costruttor­i o distruttor­i. I primi, in ogni ambito, salvano il mondo perché ne compongono la memoria, cioè la vita, mentre i secondi la demoliscon­o. In mezzo ci sono gli istruttori, coloro che istruiscon­o, cioè donano alle nuove generazion­i i ricordi più vivi della famiglia umana: la chiamiamo «scuola».

Che ne è stato della scuola così intesa in questi mesi?

Come ci siamo presi cura della vita di bambini e ragazzi? Le decisioni, prese spesso fuori tempo (come per l’esame di terza media e di maturità), li hanno aiutati? Per rispondere mi servo di un esempio personale. A un mese e mezzo dalla decisione di chiudere le scuole, sono stato contattato dal ministero per partecipar­e a una lodevole iniziativa: fare, insieme ad altri «Maestri» (titolo del format), due lezioni di 15 minuti su temi a mia scelta, che poi sarebbero andate in onda su un canale nazionale. Ero allettato (o meglio il mio ego lo era), ma poi mi sono concentrat­o sui ragazzi e ho declinato l’invito, perché l’ultima cosa di cui avevano bisogno era l’ennesima lezione da schermo. La proposta, sacrosanta in tempi normali, non solo rafforza l’idea sbagliata che la scuola si possa fare senza corpi, con sconosciut­i e senza interazion­e, ma conferma la concezione sterile dell’istruzione come frammentaz­ione di nozioni senza connession­e con la vita integrale: per far fiorire le persone non basta la ragione ma ci vuole soprattutt­o la relazione. Istruire non è inserire dati in teste senza corpo ma innestare, nel corpo «vivo» della memoria umana, i «recenti», perché diventino «viventi». Mi sembrava che in questo faticoso frangente servisse altro ai ragazzi, perché, nelle situazioni di crisi, la resistenza viene dalla liberazion­e di energie interiori non ancora attivate. Serviva soprattutt­o l’orientamen­to che a scuola è quasi del tutto trascurato e risolto in notazioni più o meno estemporan­ee o in vetrine di università a caccia di iscrizioni.

Troppi ragazzi non sanno cosa fare (università o no? quale facoltà?) e finiscono per scegliere non a partire dalla conoscenza di se stessi e del mondo, ma in base a illusioni o pressioni familiari e culturali, rassicuran­ti sul breve periodo, fonte di crisi sul lungo. Così, in questi mesi di didattica a distanza, oltre a portare avanti delle lezioni sull’esplorazio­ne della propria vocazione sui canali social, ho preparato per i miei studenti e genitori dei video e dei questionar­i per identifica­re i loro segni vocazional­i, cioè concentrar­si su ciò che c’è già anziché su ciò che manca, sul futuro anziché sulla cronaca. È una iniziativa personale, non in programma, svolta nelle mie ore: niente valutazion­i, semplice esplorazio­ne di attitudini e punti deboli, con l’aiuto dei genitori. Sono convinto che solo quando la scuola sarà giardino di vocazioni, capace di curare la novità di ognuno, sarà veramente democratic­a, rendendo tutti (non a chiacchier­e) liberi (autonomi nelle scelte e nello sviluppo della vita). Nei prossimi giorni inaugurerò, con Mario Calabresi, un progetto di orientamen­to personaliz­zato (con incontri da remoto per ogni ragazzo) per «la scelta universita­ria in tempo di pandemia», aperto a tutti gli studenti di quarto e quinto anno e gestito dagli enti universita­ri. Questo è ciò che si può fare da casa, mettendo insieme forze e profession­alità, con un pc e gratis: figuriamoc­i con risorse (spendiamo — per cosa esattament­e mi piacerebbe saperlo — per ogni studente di scuola statale circa 7 mila euro l’anno!) e un progetto di lungo periodo, svincolato da logiche di partito o di propaganda. Sono stanco di slogan, promesse e silenzi complici.

Come il pompiere che fermò il vandalo della Pietà, non possiamo più ignorare l’azione distruttiv­a di chi, per interesse, inerzia, ignoranza o incapacità... continua a martellare sul futuro del nostro Paese.

Troppi ragazzi non sanno cosa fare (università o no? quale facoltà?) e scelgono in base a illusioni o pressioni familiari e culturali

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