Corriere della Sera

Il libro dei libri di Lemaitre è una contro-epopea

Il narratore chiude la sua trilogia del Novecento: il romanzo che la Francia non aveva ancora saputo scrivere

- Di Antonio D’orrico

Ciak, si scrive Esce domani «Lo specchio delle nostre miserie» (Mondadori). 1940, il Paese è sull’orlo della catastrofe

Il Centro Svizzero, ameno luogo milanese che ospita il consolato e altri enti elvetici, dispone di un bar stile vecchio night. Lì una sera ho conosciuto Pierre Lemaitre, scrittore parigino ammirato dai tempi della formidabil­e Trilogia (Irène, Alex e Camille) che ha rivoluzion­ato la letteratur­a noir.

Quella sera, tra un whisky con ghiaccio (lui) e una vodka gelata (io), parte della chiacchier­ata verté sulla sua passione per Alfred Hitchcock: «Cerco solo di scrivere storie che Hitchcock avrebbe voluto filmare» Credo è uno che dei a mantra Hitchcock di Lemaitre. sarebbe piaciuto immensamen­te filmare il capitolo iniziale di Lo specchio delle nostre miserie, l’ultima puntata (dopo Ci rivediamo lassù, che vinse il premio Goncourt, e I colori dell’incendio) Mondadori, dell’altra con cui Trilogia, Lemaitre pubblicata ha sconvolto da e rivoluzion­ato anche la letteratur­a non noir. È un capitolo perfetto.

Ciak, si gira. Parigi, 6 aprile 1940. Ristorante Petite Bohème («Cucina parigina!») interno giorno. La cameriera Louise, una ragazza molto carina, porta il dolce al tavolo del vecchio dottor Thirion, affezionat­o, ventennale e sin qui irreprensi­bile cliente, il quale le sussurra all’orecchio che desiderere­bbe vederla nuda. Vorrebbe solo guardarla e solo per una volta. Ed è pronto a pagarla, faccia lei il prezzo. Louise, confusa e offesa, spara una cifra sproposita­ta per levarselo di torno. Il dottore senza battere ciglio le dà appuntamen­to in un albergo.

Camera Hôtel d’aragon interno sera. Louise, in piedi, si spoglia davanti a Thirion seduto compostame­nte sul letto con addosso il cappotto. Più che uno striptease quello di Louise ricorda i preparativ­i di una visita medica: «Portò le mani dietro la schiena e si levò il reggiseno. Lo sguardo dell’uomo le si arrampicò sul petto, come attratto da una luce... Non vedeva l’ora che tutto fosse finito. Così si decise a togliere le mutandine... Gli occhi del vecchio scesero lentamente come una tenera carezza... lasciavano trasparire qualcosa di indefinibi­le e di infinitame­nte triste. D’istinto, Louise capì che doveva girarsi... Le par-ve di sentire il suo sguardo sulle natiche. Un ultimo scrupolo le fece temere che allungasse la mano, che tentasse di toccarla, e si voltò di scatto. Lui aveva appena estratto una pistola dalla tasca, e si sparò un colpo in testa».

Da Hitchcock spostiamoc­i a Corneille, la cosa più vicina a Shakespear­e che i francesi siano riusciti a produrre (nella stessa proporzion­e con cui de Gaulle è stato il loro Churchill). Una citazione di Corneille brilla come un’insegna al neon all’inizio del libro: «Per commuovere intensamen­te, ci vogliono grandi dispiaceri, ferite e morti in scena».

La morte in scena del vecchio dottore davanti alla ragazza nuda è la chiave sentimenta­le dell’intero romanzo ed è anche il mistero da sciogliere (Lemaitre usa tecniche noir anche quando non scrive noir). Ci vorranno centinaia di pagine per sciogliere quel mistero, centinaia di pagine in cui si racconta un’altra storia che (corneillan­amente) commuove intensamen­te. Non più la strana avventura del vecchio medico e della giovane cameriera, ma la storia di come una nazione intera, la Francia, perse nel giugno 1940 l’innocenza e l’onore, violentata con irrisoria facilità dalle truppe di Hitler che valicarono la invalicabi­le (a pa

role) linea Maginot (fortificaz­ione in cui gli aggressori affondaron­o come un coltello nel burro), per andare a issare la bandiera del Terzo Reich sulla torre Eiffel (che per i francesi fu come sentir suonare la Marsiglies­e al contrario e scoprire, come si dice succeda in certe canzoni dei Led Zeppelin, che è un inno satanico).

In questo romanzo, così come nel resto della Trilogia, Lemaitre costringe la Francia a guardarsi allo specchio, non quello delle brame che la laureava più bella di ogni reame, ma quello delle sue miserie (da cui il poco misericord­ioso titolo del libro).

Per raccontare la sua contro-epopea, Lemaitre intreccia meticolosa­mente («Io sono l’orologiaio», dice di sé stesso) le vicende di una folla di personaggi. C’è la madre di Louise, lettrice bovaristic­a di romanzi romantici (Jane Eyre, Anna Karenina) che diventa domestica per amore (come nella celebre frase di Gianni Agnelli: «Dopo i vent’anni si innamorano solo le cameriere»). C’è la moglie di Thirion, carattere che Lemaitre disegna ricordando­si di un precetto hitchcocki­ano: «Migliore è il cattivo e migliore sarà la storia», così me lo riassunse quella volta al night svizzero.

Tra gli interpreti ci sono poi l’angelico sergente Gabriel e il caporalmag­giore Raoul Landrade (anche lui hitchcocki­anamente malvagio) che incontriam­o la prima volta spersi nel labirinto della Maginot come aspettando Godot. Ma il loro è un Godot puntuale. Ad annunciarn­e l’arrivo è un soldato giovane e frastornat­o che, alla domanda «Cos’è ’sto casino?», risponde: «I crucchi... Hanno invaso il Belgio!». La Maginot è stata dribblata.

Quello di Gabriel e Raoul è un romanzo nel romanzo, un romanzo di espedienti, ma anche di valor militare, che ricorda le vergogne e le glorie della migliore commedia all’italiana di guerra (casting: Raoul lo vedrei con la faccia di Tognazzi).

Altri destini intrecciat­i da Lemaitre sono quelli della guardia mobile Fernand e dell’amata moglie Alice, appassiona­ta lettrice delle Mille e una notte, una donna bellissima perfettame­nte rispondent­e al canone hitchcocki­ano. Diceva il regista che ci sono solo due tipi di storie che vale la pena raccontare. Uno lo sintetizza­va in quattro parole: «Bella donna in pericolo». Il pericolo che corre Alice è annidato nel suo cuore fragile, sotto quel seno da maggiorata che accende di desiderio tutti i maschi del romanzo.

La guardia mobile Fernand per amore della moglie si macchia di un reato, lui che è il personaggi­o più onesto del libro, mentre presiede a un avveniment­o realmente accaduto ma che sembra una suggestiva e simbolica invenzione romanzesca: il rogo delle banconote alla Banque de France, la distruzion­e del tesoro francese, miliardi di franchi mandati in fumo per non farli cadere in mano tedesca. Sempre Fernand sarà poi chiamato a scortare, in una dissennata e tragica procession­e lungo mezza Francia, un numeroso gruppo di poco raccomanda­bili detenuti prelevati dalle carceri

parigine per scongiurar­ne l’evasione all’arrivo dei tedeschi. Un altro fatto realmente accaduto che lo scrittore, con il suo tocco da re Mida del romanzo, trasforma in una canagliesc­a odissea, I Miserabili al tempo della svastica.

C’è sempre molto cinema nel modo di raccontare di Lemaitre (perché lui vuole scrivere romanzi popolari e il cinema è il romanzo popolare per eccellenza). Lo rilevò anche un intenditor­e come Bernard Pivot consegnand­ogli il premio Goncourt e lodandolo per «le mélange d’une écriture très cinématogr­aphique». Questa scrittura cinematogr­afica raggiunge l’apice allo scoccare dell’ora X del romanzo, l’8 Settembre francese («E all’improvviso, il 10 giugno, poco dopo il pasto delle undici, calò uno strano silenzio»), quando Parigi diventò città aperta come la Roma di Rossellini. Per sfuggire ai nazisti, i parigini scapparono in massa verso Sud, file di macchine con sopra «valigie, cappellier­e, batterie di pentole e attaccapan­ni, bambole, casse di legno, bauli di ferro, cucce». Il gigantesco imbottigli­amento di una nazione in svendita: «Il paese aveva inaugurato il più grande mercatino delle pulci della storia».

Pagine di irresistib­ile umorismo sono quelle in cui Lemaitre riporta il gossip (l’arma di propaganda più potente) che accompagna ogni guerra. Radio al soldo tedesco minavano il morale già sotto i tacchi dei poveri francesi con insinuazio­ni velenose: «Mentre siete mobilitati, gli imboscati rimasti nelle fabbriche vanno a letto con le vostre donne». Oppure vociferava­no di francesi traditori che avevano ingegnosam­ente addestrato i loro cani ad abbaiare in alfabeto Morse per comunicare segretamen­te con il nemico. Intanto la controinfo­rmazione francese spifferava che: «Sebbene abbia fatto di tutto per nasconderl­o, Hitler è omosessual­e, ha adescato numerosi ragazzi per soddisfare le sue fantasie e nessuno ha più saputo che fine abbiano fatto».

Mi sono tenuto per ultimo Désiré Migault, il personaggi­o più importante. Genio, santo, truffatore, pilota, avvocato e parroco miracolato (la Bibbia che portava sul petto deviò un proiettile diretto al suo cuore), Désiré è un incrocio tra il Dicaprio di Prova a prendermi e lo Zelig di Woody Allen. Sarà lui a riannodare tutti i fili nel ricamo finale di questo romanzo larger than life. Lo farà con una solenne predica sull’esodo in una cappella sconsacrat­a al cospetto dei nazisti, evocando il Mar Rosso che si spalanca davanti a Mosé e al suo popolo in fuga dal crudele faraone (leggi Hitler).

Lo specchio delle nostre miserie è il libro dei libri sulla Francia che la Francia non aveva ancora saputo scrivere. E racconta la storia di un inseguimen­to (tutti inseguono e tutti sono inseguiti), l’altro tipo di storia (oltre a quella della bella donna in pericolo) che vale la pena di raccontare secondo Hitchcock. Un altro giro di whisky e di vodka, Monsieur Lemaitre?

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