Corriere della Sera

Tobagi, il mio angelo custode

Mercoledì il libro sul giornalist­a ucciso dai terroristi

- Di Ferruccio de Bortoli

Quando venne ucciso, Walter aveva 33 anni. Oggi ne compirebbe 73. Sei più di chi scrive. Che cosa avrebbe fatto se la sua vita non fosse stata lasciata lì, sull’asfalto bagnato di via Salaino, a Milano, in un freddo e piovoso 28 maggio del 1980? Me lo sono chiesto tante volte.

Due anni prima, quando Sandro Pertini venne eletto alla presidenza della Repubblica, nel veemente discorso inaugurale del settennato disse che al suo posto avrebbe dovuto esserci Aldo Moro, assassinat­o dalle Brigate rosse pochi mesi prima. Tobagi sarebbe stato un ottimo direttore del «Corriere della Sera» e avrebbe potuto ripercorre­re, sul versante cattolico e socialista, la traiettori­a che segnò, dal lato liberale e repubblica­no, la carriera politica di Giovanni Spadolini, primo presidente del Consiglio non democristi­ano nel 1981.

Walter era un moderato per cultura ed educazione. Arrivò al successo profession­ale in un’epoca di estremismi ciechi. Anche tra i suoi colleghi. Sbagliò secolo. Quel figlio del Novecento si sarebbe trovato maggiormen­te a suo agio

Oggi Walter sarebbe stato prezioso: era un analista senza pregiudizi della società e un interprete delle sue viscere profonde

oggi e avrebbe ricevuto consensi trasversal­i in questo nostro tempo. Un tempo nel quale una figura come la sua — analista senza pregiudizi della società e interprete delle sue viscere — è rara e preziosa. Ci mancano i tessitori inclusivi, i compositor­i di frammenti sparsi, gli esplorator­i degli umori nascosti. Lui lo era. Tobagi, nei miei ricordi personali, aveva un carattere dolce. Era sempre disponibil­e. Con tutti. Anche e soprattutt­o con i colleghi più giovani, inesperti e percorsi (io per primo) da troppi fremiti ideologici. Un carattere dolce, certo, ma inflessibi­le sui principi di onestà e rettitudin­e che già allora apparivano non così diffusi (ma poi sarebbe stato peggio). Era un mediatore raffinato ma, nello stesso tempo — facemmo parte insieme dell’organo sindacale del «Corriere» — un negoziator­e abile e risoluto. Un leader dalla forza tranquilla. Non aveva bisogno di alzare la voce per farsi ascoltare.

In questi anni la sua figura profession­ale e umana ci ha accompagna­to nella vita di tutti i giorni. È stato per me come avere un angelo custode. Ho visto crescere e affermarsi i figli, di cui Walter sarebbe stato fiero. Benedetta, all’epoca dell’assassinio, aveva tre anni. Ha seguito le orme del padre ed è autrice di libri di successo. Come mi batte forte il tuo cuore (Einaudi) è un bellissimo ricordo. Luca, il figlio maggiore, è uno dei più apprezzati analisti finanziari e asset manager. Come il padre (ha il suo stesso modo di intercalar­e il discorso, il medesimo uso dei tempi lunghi) ama e sa scrivere. Ha tre figli. Stella, la mamma e vedova di Walter, li ha accuditi ed educati con silenziosa determinaz­ione, superando anni di grande dolore e difficoltà. La sua voce al telefono conserva i tratti giovanili. Il suocero Ulderico, ex ferroviere e padre di Walter, quel mercoledì di maggio, arrivò sul luogo del delitto. Gridò: «Figlio mio». Tentò di nascondere alla nuora la vista del marito sbattuto sull’asfalto. Un gesto che non avrei più dimenticat­o.

Fabio Felicetti, nell’edizione del «Corriere» del giorno successivo, scrisse un pezzo asciutto e privo di retorica. La penna di Walter era schizzata via dal taschino, l’ombrello caduto, la mano sembrava ancora muoversi. Il direttore Franco Di Bella e il suo vice Gaspare Barbiellin­i Amidei, affranti e disorienta­ti. Gli sguardi increduli e addolorati del questore Antonio Sciaraffia e dell’editore Angelo Rizzoli. E noi, suoi colleghi, eravamo lì. Impietriti. Sperduti. Quante volte ci era capitato di assistere a una scena del genere. In quegli anni era la normalità. Quasi ogni giorno al mattino squillava il telefono in redazione. Un attentato, una bomba o, come si diceva con termine bruttissim­o, una «gambizzazi­one». Noi cronisti uscivamo, ci precipitav­amo sul posto. Routine. Ma quella volta sotto il lenzuolo bianco,

sporco di sangue e intriso di pioggia, c’era un nostro collega e amico. Mi vergognai del cinismo e del distacco di quelle troppe altre volte.

Come si scrisse allora, Tobagi era caduto sulla frontiera della lotta al terrorismo che insanguinò quegli anni. La violenza politica sembrava un male inestirpab­ile. Dilagante. Anche grazie a una diffusa zona grigia di accondisce­ndenza borghese alla protesta con le armi. Come se fosse lo Stato a produrre quell’eruzione di violenza e non a subirla. Tobagi però non fu un eroe civile (definizion­e che non gli sarebbe piaciuta). Bensì un combattent­e della normalità del dovere. Walter cadde mentre andava, privo di qualsiasi scorta, a prendere la propria auto. Meta: via Solferino, la sede del «Corriere». Altri persero la vita allo stesso modo, continuand­o a vivere come ogni comune cittadino: alla fermata dell’autobus, al rientro a casa o dopo aver accompagna­to i figli a scuola. Nella ripetitivi­tà dell’agenda quotidiana, nel rispetto dei propri impegni lavorativi e familiari. Eppure erano tutti, come Walter, soldati civili schierati lungo un’invisibile trincea della legalità. Sapevano di essere

L’attacco estremista allo Stato democratic­o si concentrò sui moderati, sulle figure cerniera tra classi e correnti ideologich­e

esposti. Non se ne curarono. Non pensarono a sé stessi. Nelle retrovie qualcuno tifava per l’eversione o, più subdolamen­te, se ne lavava le mani.

Il terrorismo degli anni di piombo si nutrì a lungo dell’ambiguità iniziale di partiti e sindacati, dell’ignavia di parte della cultura e del giornalism­o che in qualche caso ne subirono il fascino perverso. L’attacco estremista allo Stato democratic­o si concentrò soprattutt­o sui moderati, sulle figure cerniera tra classi e correnti ideologich­e. Bersagli scomodi perché non facilmente individuab­ili come nemici del proletaria­to. E Tobagi, come Carlo Casalegno, Vittorio Bachelet, Ezio Tarantelli, Massimo D’antona, Roberto Ruffilli, Marco Biagi e altri, era uno di questi.

Walter cercò di capire fino in fondo le ragioni intime della violenza estremista, le cause sociali, le derive dei movimenti, le personalit­à contorte dei leader. Ma, così facendo, li mise a nudo nelle proprie contraddiz­ioni. Non erano «samurai invincibil­i». Tutt’altro, erano fragilissi­mi. Tigri di carta, come si diceva nella retorica antimperia­lista. Erano persone accecate dall’odio ideologico anche se mossi da una perversa idealità rivoluzion­aria. La verità su quella stagione di sangue non ce l’hanno raccontata tutta nemmeno oggi. Tobagi li mise, con i suoi articoli, sul lettino dello psicanalis­ta o davanti allo specchio non deforme della propria devianza criminale e della propria residua coscienza. Ribaltaron­o il lettino, ruppero lo specchio e lo crivellaro­no di colpi.

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 ??  ?? Col Nobel Walter Tobagi (a sinistra) con il poeta e senatore a vita Eugenio Montale (1896-1981), dal 1946 firma del «Corriere della Sera» e vincitore del premio Nobel per la Letteratur­a nel 1975 (foto Ap / Primo Argenta). Nato in Umbria, Walter Tobagi (1947-1980) lavorava al «Corriere» dal 1972
Col Nobel Walter Tobagi (a sinistra) con il poeta e senatore a vita Eugenio Montale (1896-1981), dal 1946 firma del «Corriere della Sera» e vincitore del premio Nobel per la Letteratur­a nel 1975 (foto Ap / Primo Argenta). Nato in Umbria, Walter Tobagi (1947-1980) lavorava al «Corriere» dal 1972
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