Tobagi, capire e raccontare
L’eredità Domani in edicola con il «Corriere» il libro che raccoglie articoli del giornalista assassinato quarant’anni fa da terroristi rossi
Succede ai grandi. Non ci sono più. E ti chiedi cosa avrebbero scritto di questo e di quest’altro. Come avrebbero visto un episodio o un evento. Con quale chiave, quale lettura, quale idea. Il terrorismo non ha ucciso solo alcune persone ma anche tutto quello che avrebbero potuto dire e fare negli anni a venire. Il codice penale non prevede il crimine contro l’anima di un Paese. Ma è quello che è successo anche la fredda mattina del 28 maggio 1980, in via Salaino, a Milano. Fu ucciso a 33 anni: oggi, a quell’età, sarebbe considerato un ragazzo. Ma lui era già Walter Tobagi. Con ogni articolo che sembrava un saggio. Ogni capoverso che era già un’analisi. Ogni pezzo che ne richiamava un altro e faceva capire in che Paese schizofrenico abbiamo vissuto. Forse ancora viviamo.
Giornalisti, spesso, si diventa. Tobagi è nato cronista-scrittore. La cura del dettaglio e la visione più larga, la presenza fisica sui posti e l’elaborazione culturale. Studio, studio, studio. Ore e ore a parlare con le persone, a leggere i documenti, a confrontare le versioni: uno sforzo titanico anche per mettere giù, alla fine, un semplice articolo. «Per essere grande sii intero… Metti tanto quanto sei nel minimo che fai», ha scritto Pessoa. E prima di informare gli altri Walter informava sé stesso: in modo serio e sistematico, quasi maniacale. Capire. Poi raccontare. Con uno stile mai banale e mai retorico, la parola giusta ma non complicata, visto che nel giornalismo la bussola dovrebbe essere il lettore e non lo specchio.
Aveva 18 anni e scriveva già da cronista navigato. L’articolo «Che cosa leggono i pariniani» comparve sul giornale del liceo, «La Zanzara», marzo 1965. Un pezzo di bravura. Una vera inchiesta. Senza paura di criticare, magari irritare, i compagni di scuola. Con una sorta di «coraggio dei fatti» che l’avrebbe accompagnato tutta la vita. «La carta stampata non attira molto, i pariniani non hanno l’abitudine di passare in edicola». «Indifferenza per i problemi di maggiore attualità». «Anche coloro che dovrebbero essere i più qualificati rivelano una
superficialità paurosa». Ma soprattutto, perché questo era (ed è sempre) il punto: «Se i liceali, che hanno la possibilità, non lo fanno, chi mai si preoccuperà di crearsi una coscienza civica?». Coscienza civica. Due parole forti per un diciottenne che ci crede e le scrive sul suo primo giornale. Come una stella polare già scoperta tra i banchi di scuola.
Entra all’«avanti!», dove resta pochi mesi. A 22 anni è già assunto all’«avvenire». Dove il direttore Leonardo Valente ne resta folgorato: «Mi accorsi di essere davanti a un ragazzo preparatissimo, acuto e leale. Non c’era argomento che non lo interessasse». Non solo. «Walter preparava gli articoli con la stessa diligenza con cui al liceo faceva le versioni di latino e greco e all’università si dedicava alle ricerche storiche… senza darsi la minima preoccupazione della fatica e del tempo che impiegava. Il suo solo problema era di arrivare alla verità, a qualunque costo». Ecco: il senso di una vita e di una professione. Non a caso la Scuola di giornalismo della Statale di Milano, che ha anche raccolto l’eredità della gloriosa Ifg, si chiama «Walter Tobagi».
La grande palestra del «Corriere d’informazione» e poi al «Corriere della Sera», casa sua. Con decine di articoli, commenti, inchieste. Difficile scegliere. Ma alcuni pezzi sono imperdibili, anche perché profetici. Come il racconto da Pizzighettone, a un passo da Cremona,
per guardare la crisi di governo (febbraio 1978) dalla provincia profonda. Mentre Roma discute, Tobagi cerca un’altra Italia. E, leggendo, si scoprono le parole, le accuse riascoltate nel ’92 con Mani pulite o appena ieri con la ventata anti-casta. Un pezzo di Paese senza tempo che «sprizza rabbia e indifferenza», come scrive Walter. Eccole, le voci. «Mangiano, mangiano, e quando li scoprono entrano da una porta e escono dall’altra». «Il seggiolone fa comodo a chi ce l’ha». «Perché i partiti devono essere sovvenzionati?». «Le elezioni? Sono spese senza risultati». Con un gran finale: «Sarebbe meglio che finisse peggio, tutti a San Vittore». Tobagi non commenta. Non ce n’è bisogno. Ha fatto di più, già nel ’78 ha portato sul «Corriere» la pancia della provincia, il rancore verso la politica, l’ansia giustizialista, la passione di sempre per la galera. Degli altri.
È il 4 marzo, sempre nel ’78, quando Walter coglie il nuovo spirito del tempo. A meno di due settimane dal sequestro di Aldo Moro. Il Partito comunista, con seimila persone, è al Palazzetto dello Sport di Napoli e un dirigente brillante (con il futuro che conosciamo), Giorgio Napolitano, apre le porte: la classe operaia diventa «forza di governo per superare la crisi, rafforzare la democrazia, rinnovare il Paese». Non solo. «La fiducia è grande. Saremo all’altezza del nostro compito storico». Una svolta che ha fatto epoca, Tobagi era lì. Così come il 23 maggio racconta gli intellettuali bolognesi e «la volontà di ridiscutere di politica senza subire il ricatto del terrorismo», riflette sui mali delle ideologie, scopre un giovane dc con un guizzo in più, Nino Andreatta. Il 31 luglio torna tra i diciottenni milanesi, quasi a ripercorrere quell’articolo scritto al Parini nel ‘65: fa vivere i giovani in carne e ossa, da cronista, e allo stesso tempo dà l’idea della nuova generazione, come fosse un sociologo. Le utopie rivoluzionarie stanno scomparendo: i ragazzi si parlano addosso «come in certe scene di Ecce bombo» e si sono convinti che «pretendere di cambiare il mondo è un’illusione». Oggi sappiamo che gli anni Ottanta sarebbero stati l’età del riflusso. Ma Tobagi l’aveva capito (e scritto) nel ’78.
«In viale Umbria il partito della morte ha teso l’agguato a Emilio Alessandrini, 39 anni. È la prima volta che uccidono un magistrato a Milano». Articolo del 30 gennaio ’79: «il partito della morte», lo definisce. Come in un terribile gioco di specchi, Tobagi ricorda l’autoprofezia di Alessandrini che diventa anche la sua autoprofezia. Eccola, la frase del magistrato riportata dal giornalista: «Non è un caso che le azioni dei brigatisti siano rivolte non tanto agli uomini di destra ma ai progressisti. Il loro obiettivo è intuibilissimo: arrivare allo scontro nel più breve tempo possibile, togliendo di mezzo quel cuscinetto riformista che, in qualche misura, garantisce la sopravvivenza di questo ti
Walter descrisse già nel 1978 il rancore verso la classe politica e l’ansia giustizialista che bollivano nella pancia degli italiani
po di società». Il ragionamento di Alessandrini ricade su sé stesso. E su Tobagi che lo fa suo. I riformisti come nemico da abbattere.
Walter tra i bimbi sofferenti di Cesano Boscone, quando ripensa alla Giornata di uno scrutatore di Italo Calvino e parla anche un po’ di sé: «Il cronista prova come un senso di colpa. Quante volte s’inseguono i signori della politica e del potere e si dimentica che esistono realtà dolorose, che coinvolgono decine di migliaia di persone?». Walter che chiacchiera con Jemolo e Bobbio sulla violenza dell’epoca per concludere che «la democrazia si costruisce praticando ogni giorno la coerenza e la tolleranza, nelle parole e nei comportamenti». Walter che racconta anche i fatti di nera, con atmosfere e dettagli che fanno pensare a Scerbanenco. Walter che il 7 ottobre del ’79 si chiede qual è il senso del mestiere. Con parole cha valgono pari pari anche adesso, nell’epoca digitale. La premessa: «Circolano ormai troppi teorici dell’informazione e delle comunicazioni, che vivono come paguri elaborando dotte esegesi sulla fatica quotidiana di chi i giornali li fa per davvero». Il rischio: «La tentazione che il cronista vive quotidianamente è di mettersi al centro dei fatti, di cercare di condizionarli». La conclusione o forse l’auspicio: «Speriamo che i giornali continuino liberamente a pubblicare notizie, è sempre il primo modo di fare cultura».
Quando il 12 dicembre ’79 si occupa di Piazza Fontana dieci anni dopo, inventa un incipit fulminante: «Fu l’autunno in cui tutto sembrava possibile. Rivoluzione e reazione». Ma la lettura di Tobagi è chiara: obiettivo fallito. «Le bombe non provocano le reazioni in cui speravano gli esperti dell’eversione psicologica. A tre giorni dalla strage, i funerali trasformano piazza Duomo nel più imponente presidio operaio che mai si sia visto». Appunto. «La tragedia potrà apparire l’acme della più tormentata stagione di lotte sociali ma anche l’inizio di quella fase unitaria e antifascista che influenzerà a lungo la politica italiana». Scavalcando le solite interpretazioni, «la perdita dell’innocenza» e dintorni, Walter vede le due facce della strage: la bomba con i morti ma anche quei funerali nella nebbia, la folla e il silenzio, il Paese unito come non mai. Allora. E in prospettiva.
Ma nella primavera del 1980 Tobagi firma la sua condanna. Dopo via Fracchia, il covo scoperto, quattro terroristi uccisi, Walter annota che «il mito dell’imprendibile brigatista genovese, che colpisce ma non può essere mai scoperto, comincia a dissolversi» (29 marzo 1980). Ma l’articolo più famoso, tragicamente famoso, è quello del 20 aprile 1980, dove Tobagi legge la crisi del terrorismo, vede le tensioni interne, indica le falle del sistema. Sempre con il suo stile asciutto, limpido, quindi efficace, che non è forma ma sostanza. «È tanto estesa l’organizzazione brigatista o un gruppo di poche decine riesce a sembrare un piccolo esercito?». «Sono isolati dal grosso della classe operaia». «Si sforzano di dimostrare una forza superiore a quella reale». «L’immagine delle Brigate rosse si è rovesciata, sono emerse le debolezze». E allora lo Stato, o meglio l’italia, può farcela, «senza pensare che i brigatisti debbano essere, per forza di cose, samurai invincibili». Non sono samurai invincibili è l’intuizione giornalistica che diventa un testamento. La frase di una vita, la frase della morte.
Walter Tobagi avrebbe oggi 73 anni. Al «Corriere» c’è il busto a un passo dall’ingresso di via Solferino, la targa che lo ricorda in Sala Albertini, la foto qui al primo piano dove scrive a macchina. La verità è che ci mancano i suoi articoli. Da quella mattina in via Salaino il giornale è cambiato tanto ma è sempre il «Corriere della Sera»: andiamo avanti anche per lui.