Corriere della Sera

«Mio padre Walter Tobagi e il senso della memoria»

L’esempio Da oggi in edicola con il «Corriere» il libro dedicato al giornalist­a assassinat­o quarant’anni fa. Un intervento di suo figlio

- di Luca Tobagi con un ricordo di Micconi

Domani ricorre il quarantesi­mo anniversar­io dell’assassinio di mio padre. Dopo così tanto tempo, la situazione in cui siamo vissuti negli ultimi anni mi spinge a fare tre riflession­i strettamen­te legate fra loro.

La prima riguarda il contesto sociale. Avevo già avuto modo di notare, negli ultimi dieci anni, come alcuni aspetti del mondo in cui viviamo non fossero poi così cambiati rispetto al periodo in cui mio padre è morto. Arrivati a quest’anno, tuttavia, l’involuzion­e, per alcuni aspetti, è stata talmente profonda che a mio parere ricorda pericolosa­mente il contesto di «lacerazion­e sociale e disprezzo dei valori umani» che mio padre aveva provato, con il suo lavoro, a contrastar­e e che, di fatto, è stato propedeuti­co alla sua morte. Chi è vissuto negli anni Settanta può ricordare bene il clima di

Il degrado dell’attuale dibattito pubblico ricorda il «disprezzo dei valori umani» denunciato da mio padre molti anni fa

tensione che si respirava. Episodi di violenza erano parte della cronaca quasi ogni giorno. Anche un bambino, com’ero io all’epoca, poteva capirlo. Sinceramen­te non avrei pensato di ritornare a percepire un disagio simile a quello nel nostro Paese, ma forse non dovrei essere sorpreso, data la quantità di nostalgici di quel periodo e del suo clima di «partecipaz­ione».

Oggi per fortuna non abbiamo episodi di violenza fisica come quelli dell’epoca e mi auguro di cuore che non ritornino. Ma negli ultimi anni il degrado delle abitudini nella gestione di alcune relazioni sociali, a cominciare dal dibattito politico e pubblico, è stato tale da farmi percepire il rischio di un ritorno della violenza come concreto. È diventato raro assistere a una discussion­e che non degeneri in rissa verbale, con i suoi protagonis­ti che urlano uno contro l’altro. L’insulto e la presa in giro irrispetto­sa non sono più l’eccezione, ma la regola. Sono il registro di conversazi­oni pubbliche che progressiv­amente hanno sdoganato l’idea che per ottenere un applauso, un voto o qualsiasi forma di consenso, si possa fare leva sugli istinti, anche i più bassi, delle persone, anziché sulla ragione. Che fare fatica per cercare soluzioni articolate a problemi complessi, o forme di interazion­e con gli altri rispettose e che permettano di crescere e migliorare, siano inutili vezzi da lasciare a chi può permetters­elo perché non ha null’altro da fare.

Non è così. Le parole hanno un grande valore. In un quadro che mi pare oggettivam­ente migliore di quello di quaranta o cinquant’anni fa, ma nel quale emergono nuove sacche di disagio sociale, non dobbiamo sottovalut­are il potere dell’esempio che i comportame­nti pubblici possono avere. E quando dico pubblici non intendo solo quelli dei personaggi pubblici, ma anche quelli privati, di ognuno di noi, esercitati in pubblico, di fronte ad altri. Perché la violenza verbale è una brutta cosa, ma ancora peggio è pensare che il confine che separa la violenza verbale da quella fisica possa avere come argine principale l’autocontro­llo dei singoli in un ambiente nel quale certe azioni potrebbero considerar­si, se non giustifica­te, comunement­e accettabil­i. In un contesto come quello di oggi mio padre morirebbe ancora. Finirebbe isolato. Osteggiato, come è accaduto da parte di qualcuno quarant’anni fa. Oggi come allora, le voci di chi ha l’ambizione di cambiare il contesto con gradualità, serietà, capacità e impegno sono soffocate da chi si limita a urlarvi sopra più forte slogan vuoti che promettono rivoluzion­i che, se non impossibil­i, appaiono molto improbabil­i a chiunque voglia applicare un po’ di buon senso e di buona educazione. È servita una pandemia per interrompe­re temporanea­mente la tendenza e concentrar­ci su un’emergenza più urgente.

Per questo sono grato a chi ha voluto, negli anni, ricordare pubblicame­nte mio padre, ma credo che farne memoria debba essere innanzitut­to una questione privata. Perché il cambiament­o che serve, il «mutamento della coscienza collettiva» che mio padre evocava in una lettera a mia madre che è stata resa pubblica, non può che partire dai singoli. Dalla volontà di ciascuno di non arrendersi a credere che fare le cose bene o male sia lo stesso. Essere competenti o incompeten­ti sia lo stesso. Cercare scorciatoi­e per evitare di fare il proprio dovere fino in fondo e svolgere un lavoro nel modo migliore sia lo stesso. Seguire le regole, piccole e grandi, per la nostra convivenza civile o non seguirle sia lo stesso. Non è lo stesso.

La seconda riguarda la memoria e i valori. Giustament­e, negli ultimi decenni, è stato svolto un grande e meritorio lavoro di ricostruzi­one, memoria e testimonia­nza. Su tante cose: ci sono molte pagine buie nella storia, anche recente. Ora sappiamo di più sul passato. Una maggiore conoscenza è un bene, soprattutt­o quando si tratta di portare alla luce fatti il meno possibile filtrati dalle opinioni e dall’emotività

personali. Molte persone si sono dedicate a questo lavoro di scavo, di recupero dei fatti, di testimonia­nza, e a loro va la mia personale riconoscen­za, tanto maggiore quanto più accurato, esteso e disinteres­sato è stato il loro impegno. Testimonia­re, informare, raccontare storie ed eventi senza cercare di condiziona­re in modo inopportun­o è infatti un compito difficile e faticoso, che richiede capacità, competenza ed equilibrio.

Credo che oggi siamo di fronte a una sfida diversa, che dobbiamo inquadrare correttame­nte per riuscire ad affrontarl­a con buone probabilit­à di successo. È molto impegnativ­a, perché riguarda la costruzion­e dei sistemi di valori individual­i che formano la base dei comportame­nti. Penso che parte dell’imbarbarim­ento e del degrado di cui parlavo prima sia frutto di un forte disallinea­mento di valori fra le diverse persone e gruppi sociali. La cultura, l’educazione, la memoria sono parte integrante del processo di costruzion­e di un’identità personale e del sistema di valori di ciascuno di noi, ma non sono tutto. E soprattutt­o non sono, di per sé, i valori e non bastano a crearli. Provo a spiegarmi meglio con esempi.

Negli ultimi tempi abbiamo assistito a gravi rigurgiti di antisemiti­smo. Un recente rapporto Eurispes ha mostrato un’inattesa diffusione di convinzion­i negazionis­te in una minoranza — sempre troppo grande — della popolazion­e. Temo che il problema non sia la mancanza di conoscenza. La memoria e la testimonia­nza possono trasformar­e il passato da qualcosa di astratto in qualcosa di concreto, in carne e ossa, che ormai da almeno trent’anni fa parte del bagaglio di conoscenze degli italiani, anche giovani. Però non è bastato. Sono convinto che chi oggi ha convinzion­i o comportame­nti antisemiti sia, nella grande maggioranz­a dei casi, consapevol­e, almeno in modo superficia­le, di ciò che è accaduto nel passato, delle deportazio­ni e dell’olocausto. Paradossal­mente anche chi lo nega deve conoscerlo. La questione è che probabilme­nte non gli interessa. Se uno non ritiene che certi eventi siano tragedie orribili, comportame­nti disumani, da evitare ad ogni costo, la memoria, da sola, non può fare molto. Bisogna capire che cosa possa portare donne e uomini ad avere determinat­e convin

zioni, e operare perché possano modificare il proprio sistema di valori, in modo da cambiarle. Ho paura che troppo spesso noi confondiam­o la memoria con i valori. Scambiamo comportame­nti che rivelano l’assenza di un certo tipo di valori con la mancanza di conoscenza, che si può almeno cominciare a colmare con la memoria e la testimonia­nza. Ma si tratta di situazioni molto diverse. Sentire giovani liceali inneggiare al terrorismo, evocare in cori il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro, trovare scritto sui muri delle scuole che «dopo gli anni di piombo solo anni di m .... », significa evidenteme­nte che non ignorano il passato. Lo rievocano con nostalgia, anche se non è dato sapere se si tratti di parole vuote, di slogan o di convinzion­i più profonde.

Non si può mai sapere davvero che cosa passi nella testa e nell’animo degli altri. Ma se oggi molte persone sono più propense che in passato a svalutare la competenza, a dubitare dei fatti, dei dati, dell’evidenza più che delle proprie opinioni, qualche domanda bisogna porsela. Negazionis­ti, complottis­ti a oltranza, antivaccin­isti, nostalgici di un passato triste mi sembrano forme diverse di uno stesso fenomeno. Non so che cosa suggerire per contrastar­lo. Un ruolo e una responsabi­lità importanti li hanno in primo luogo le famiglie, poi le scuole, i rappresent­anti delle istituzion­i, i personaggi pubblici. Tutti coloro che pensano che il progresso civile passi per comportame­nti non violenti e rispettosi degli altri, anche verbalment­e, devono metterli in pratica. Devono poter essere osservati. La mia piccola regola è che si educhi con l’esempio prima che con le parole. Che siano i comportame­nti a rivelare i valori e le preferenze (sì: avere studiato Economia in questo caso aiuta).

Non sono concetti originali e anche mio padre li aveva espressi, parlando dei suoi genitori. Ma sono veri. C’è sempre qualcuno che ci osserva, a cominciare dai nostri figli, che dovrebbero essere il pubblico più importante, e dalle altre persone che ci sono vicine, alle quali di solito teniamo. È anche importante capire che non si è soli in questo sforzo e che tutti possiamo fare qualcosa per sostenere gli altri.

Anche un gesto che sembra piccolo a chi lo compie, una parola semplice, ma che dimostra cura e gentilezza, possono avere un valore molto grande per chi li riceve. Sapere che c’è qualcuno che, anche in modo indiretto, condivide il nostro impegno può moltiplica­re l’energia, qualunque cosa si faccia. Per quanto mi riguarda, non ho parole per dire quanto fondamenta­le sia stata in tanti anni la vicinanza di mia moglie e il suo lavoro quotidiano e incessante per crescere i nostri figli nei valori di impegno, responsabi­lità, libertà, disciplina in cui crediamo, come pure nella volontà di apprezzare le cose belle che la vita offre, e per avermi sostenuto nel cercare di metterli in atto concretame­nte nella mia vita. E in altri momenti sono stato fortunato ad avere vicino persone che sono state in grado di aiutarmi in alcune situazioni difficili.

La terza consideraz­ione riguarda l’onestà intellettu­ale e la capacità di impegnarsi senza schierarsi, senza adesioni ideologich­e. È una delle lezioni più importanti che mi ha lasciato mio padre con il suo esempio e per le quali ancora oggi lo ammiro di più. Il desiderio di essere accettati, magari parte di un gruppo, è umano e serve a farci sentire bene. Ma se il prezzo da pagare per questo, soprattutt­o quando è coinvolta la possibilit­à di esprimere il nostro pensiero o mettere all’opera le nostre capacità, è l’adesione a una dottrina, un’ideologia, un sistema di convinzion­i e di credenze che non è nostro, ma di qualcun altro, è troppo alto. Perché ci costringe a schierarci, non ci lascia più liberi, ci toglie lucidità e rischia di sacrificar­e il rispetto per le vite degli altri in nome dell’ideologia. Un anno fa ho visto la replica di un’intervista del 1994 della Bbc, sempre considerat­a un esempio eccellente di servizio pubblico e di informazio­ne, al grande storico Eric J. E. Hobsbawm (1917-2012), all’epoca della pubblicazi­one del suo ottimo saggio Il secolo breve. Essendo stato Hobsbawm iscritto per decenni al Partito comunista, il suo intervista­tore gli ha domandato come avesse potuto conciliare la sua attività di storico con l’accettazio­ne di atti di repression­e violenta e illiberale da parte dei regimi comunisti in vari Paesi (che Hobsbawm disapprova­va). La risposta è stata che anche per questo motivo aveva scelto di non occuparsi profession­almente dell’unione Sovietica. E, dopo un’ampia e ragionata conversazi­one su tali temi, di fronte alla domanda diretta se perseguire l’obiettivo del «radioso avvenire» che il comunismo prometteva valesse i milioni di vite che erano stati sacrificat­i apparentem­ente per tale scopo, la risposta è stata un laconico monosillab­o: yes. Sì.

Ecco, io invece penso di no. Sono convinto che, nonostante le spiegazion­i, nessuna ideologia valga tutte quelle vite umane. Nemmeno una vita. Non quella di mio padre, né quella di nessun’altra persona. La violenza politica è violenza, ma è anche politica. Forse sarebbe giunto il momento di convincers­i che, quando la storia ci mette di fronte a certi avveniment­i, bisognereb­be trovare il coraggio di ammettere che si tratta di idee e ideologie sbagliate, non basta dire che qualcuno abbia commesso errori nell’applicarle, o che alcune parti di esse possano portare a risultati positivi. Le persone sono libere di scegliere di spendere la propria vita per i valori in cui credono, ma questo non dà ad altri il diritto di togliergli­ela con la violenza. Se ci si lascia condiziona­re dall’appartenen­za o dal rifiuto ideologici al punto di abbracciar­e un estremo pur di evitarne un altro, se si accetta di smettere di considerar­e le persone come esseri umani, ma le si trasforma in simboli, pedine, oggetti politici, ciò che è accaduto a mio padre potrà continuare a succedere.

Parte del valore dell’esempio di mio padre per me consiste nella scelta di non tirarsi indietro. Non mi riferisco al fatto che abbia pagato questa decisione con la vita. È riuscito a coltivare e testimonia­re i suoi principi e le sue convinzion­i nella sua vita personale e con il suo impegno profession­ale, senza che questo scadesse in uno schieramen­to che avrebbe compromess­o la sua obiettivit­à, il suo rigore e la sua umanità. Che alla fine sono le ragioni per le quali è stato ucciso. Non ha rinunciato ad applicarsi per capire il tempo in cui viveva. Non ha rinunciato alle sue opinioni politiche, ma ha scelto di rifiutare un’appartenen­za politica ufficiale per poter lavorare bene e sentirsi libero. Per conoscere e svelare le dinamiche con cui i terroristi speravano di condiziona­re la vita del nostro Paese e togliere a chi lo leggeva almeno un po’ della paura che nasce dalla difficoltà a interpreta­re la realtà.

Credo che finché non ci sarà una volontà individual­e diffusa di muovere passi decisi in queste direzioni, persone come mio padre potranno ancora trovare strade sbarrate e ostacoli sul proprio cammino. Forse dovranno continuare a pagare con la vita il proprio impegno e la scelta di non tradire i propri valori e la propria coscienza.

Negli anni scorsi ho cercato di sottolinea­re gli aspetti, ancora attuali, legati alla sua vita. Quest’anno particolar­e, segnato da una pandemia che ricorderem­o e che giustament­e richiede la massima attenzione, con le misure di contenimen­to mette alla prova lo spirito civico e il senso di responsabi­lità di tutti. Ho cominciato a scrivere queste riflession­i intorno al compleanno di mio padre. Forse, in un 2020 dalla ricorrenza rotonda della sua scomparsa, tutte le persone che lo vogliono ricordare potrebbero fargli un regalo e domandarsi una volta di più che cosa possano fare, una per una, per creare un contesto quotidiano di rispetto reciproco, per evitare che certe situazioni, che in qualche misura hanno contribuit­o a creare le condizioni per la sua morte, si ripetano.

Sono convinto che nessuna ideologia valga tutte le vite che furono sacrificat­e nel Novecento. Nemmeno una sola vita

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Walter Tobagi (1947-1980) con il figlio Luca a Milano in piazza Duomo il 6 gennaio 1979, un anno e mezzo prima di essere assassinat­o. Dietro di lui, a sinistra, Ferruccio de Bortoli (foto di Uliano Lucas)
In piazza a Milano Walter Tobagi (1947-1980) con il figlio Luca a Milano in piazza Duomo il 6 gennaio 1979, un anno e mezzo prima di essere assassinat­o. Dietro di lui, a sinistra, Ferruccio de Bortoli (foto di Uliano Lucas)

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