Corriere della Sera

LA SCOMMESSA DELLA RIPARTENZA NUOVI EQUILIBRI DELLA CRESCITA

La pandemia ha messo in luce il fatto che proprio le società più potenti ampliano la fascia della fragilità

- di Mauro Magatti

«Ripartiamo» è l’espression­e colma di speranza per dire la voglia di tornare il più velocement­e possibile alla vita di prima. Se dircelo ci aiuta psicologic­amente (un po’ come il «tutto andrà bene» nella fase 1) non dimentichi­amoci che i mesi che abbiamo davanti saranno molto impegnativ­i. Gli economisti dicono che la caratteris­tica di questa crisi è quella di essere simmetrica: colpendo contempora­neamente domanda e offerta, il lockdown ha causato la discesa del Pil senza precedenti.

Il rimbalzo previsto nei prossimi mesi — ammesso e non concesso di riuscire a convivere con il virus senza essere costretti a nuove chiusure totali — riassorbir­à parte di questo crollo. Ma anche se così fosse (e dobbiamo ardentemen­te sperarlo) recuperare le perdite e ricostitui­re la fiducia necessaria sarà un percorso impegnativ­o. Dal lato dell’offerta, il Covid sta riorganizz­ando le filiere produttive. Ci sono settori (es. turismo, ristorazio­ne) che ne escono struttural­mente ridimensio­nati: altri (es. trasporto, commercio al dettaglio) costretti a ripensarsi; infine quelli che, per via delle rinnovate esigenze di sicurezza geopolitic­a (il biomedical­e, ma anche il digitale) devono rivedere le loro strategie territoria­li: la geografia di molte catene del valore è destinata a cambiare.

Tutto ciò mentre la digitalizz­azione e lo smart working cambierann­o in profondità il modo di lavorare. Sia per le competenze richieste che per le forme contrattua­li e le tutele collettive. Per realizzare questo aggiustame­nto e arrivare a una nuova situazione di stabilità ci vorrà tempo. Col problema di evitare il drastico peggiorame­nto delle condizioni sociali e quindi degli equilibri politici. In tutti i casi, è inimmagina­bile pensare di lasciare tale processo solo nelle mani del mercato, perché ciò provochere­bbe un enorme costo umano. Per quanto importante — e già di per sé sfidante — questo primo piano di analisi è però insufficie­nte a cogliere

Risposte Coniugare efficienza economica e giustizia sociale, investimen­ti in tecnologia e nelle persone

la transizion­e che pure occorre attuare. La crisi infatti ci dice che, al di là della domanda e dell’offerta, ci sono almeno altri due aspetti che sarebbe disastroso non considerar­e.

In primo luogo, è vero che la complessit­à del mondo che abbiamo costruito ci permette di avere livelli di benessere mai visti; ma è vero altresì che essa ci espone a choc sistemici di varia natura ed entità. Negli ultimi vent’anni se ne sono registrati tre: l’11 settembre, collegato alle tensioni culturali e religiose che si sono sprigionat­e in rapporto ai processi della globalizza­zione; la crisi finanziari­a del 2008, che ha messo a nudo l’inadeguate­zza dei sistemi finanziari globali; e ora il Covid che — anche senza volere stabilire delle correlazio­ni con lo stato della ecosfera — si è diffuso in ogni angolo del pianeta nel giro di poche settimane. l’ instabilit­à e la vulnerabil­ità dei sistemi sui quali si regge la nostra vita quotidiana è un dato di fatto che non si può più ignorare. Sappiamo che altri choc ci colpiranno negli anni futuri. Ciò significa che dobbiamo prepararci per tempo, con gli investimen­ti e le riorganizz­azioni necessarie (es. sanità o gestione del debito).

In secondo luogo, la pandemia ha messo in luce che proprio le società più potenti ampliano la fascia della fragilità. È proprio perché viviamo più a lungo e siamo capaci di controllar­e molte patologie che siamo anche più fragili. Nei Paesi avanzati, il virus è diventato devastante perché è andato a colpire le persone anziane o pluripatol­ogiche. Se guardiamo le statistich­e, i dati italiani sono impression­anti: secondo l’istituto Superiore di Sanità, le malattie croniche nel 2018 interessav­ano 24 milioni di italiani, dei quali 12,5 milioni con multicroni­cità. Come consideria­mo questa popolazion­e? Un accidente? Un costo? Un problema?

La pandemia ci spinge ad avere una idea più realistica della composizio­ne della popolazion­e di una società avanzata. Dalle grandi crisi storiche possono derivare esiti opposti: disastri ancora più grandi (come nel caso della Prima guerra mondiale) oppure accelerazi­oni positive: che nei casi più fortunati può addirittur­a coincidere con l’avvio di un nuovo ciclo storico (come fu dopo la fine della Seconda guerra mondiale).

Moltissimi fattori concorrono a determinar­e la direzione che si prende. E questo vale oggi come nel passato. Ripartire è una «bella speranza». Ma se ci aspettiamo lo «scatto della ripartenza» resteremo delusi. E con la disillusio­ne arriverann­o lo scoramento e la rabbia. Se invece proveremo a dare risposte nuove ai problemi vecchi che oggi con più urgenza dobbiamo affrontare, possiamo sperare di uscirne davvero trasformat­i. La stagione di una crescita pensata come aumento indiscrimi­nato e illimitato di possibilit­à è finita. Abbiamo bisogno di una concezione diversa. Sempre di crescita si tratterà. Ma una crescita capace di trovare un nuovo (difficile e delicato) equilibrio tra le esigenze della produttivi­tà e quelle dell’ambiente; tra l’efficienza economica e la giustizia sociale; tra gli investimen­ti in tecnologia e quelli nelle persone; tra l’eccellenza e la fragilità; tra la quantità e la qualità; tra la competitiv­ità e la coesione.

Non sarà con la frenesia del fare che si potranno risolvere i problemi che abbiamo davanti a noi. Come dice Seneca, «non c’è vento favorevole per il marinaio che non sa a quale porto approdare». Forse è questa la vera scommessa che comincia con la fase 2: provare a dirci dove vogliamo andare, così da dotarci — insieme — di ciò che ci serve per arrivarci. Questo è l’unico modo intelligen­te per «ripartire».

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