Corriere della Sera

La biblioteca secondo Calasso: nessun libro è un’isola

Esce domani da Adelphi il saggio su oggetti, istituzion­i, modelli di un mondo (ancora) di carta

- di Emanuele Trevi

Con Il libro di tutti i libri, uscito nello scorso autunno, Roberto Calasso ha aggiunto la decima parte a un’opera immensa, affascinan­te quanto inclassifi­cabile, il cui primo volume, La rovina di Kasch, risale ormai a trentasett­e anni fa. A mio modesto e opinabile parere, questa impresa di Calasso e il ciclo autobiogra­fico di Karl Ove Knausgård sono le due più ambiziose e memorabili scommesse sul futuro della letteratur­a contempora­nea in Europa, ed hanno in comune il fatto di essere composti da volumi leggibili anche nella loro autonomia, e non necessaria­mente in ordine cronologic­o. Si potrebbe dire che Knausgård è in vantaggio, nel senso che nel 2011 ha terminato con il sesto volume La mia battaglia, non prima di aver riempito tremila fitte pagine. Ma anche Calasso (che per ora non ha dato alla serie un titolo complessiv­o, ma ha sempliceme­nte numerato i singoli volumi) avrà in mente qualcosa, perché è uno scrittore troppo attento alle leggi formali per ignorare che le forme, per essere immagini credibili del mondo, a differenza del mondo devono pur terminare da qualche parte.accanto all’opus magnum, poi, Calasso pubblica di tanto in tanto dei volumi di scritti minori, dove si esaltano le sue qualità di saggista, come in La letteratur­a e gli dèi e in questo Come si ordina una biblioteca, che raccoglie vari interventi (alcuni già apparsi parzialmen­te sulle pagine di questo giornale) legati a una riflession­e sugli oggetti, le istituzion­i, i modelli mentali che ruotano intorno al concetto di «libro», a partire dalla sua materialit­à fisica di oggetto ormai più volte dato per obsoleto e morituro ma, come osserva Calasso, insostitui­bile come i letti, o i cucchiai. In realtà, le prime profezie sulla «morte del libro» e la sua smateriali­zzazione digitale risalgono alla fine degli anni Ottanta, ma è più facile, a quanto pare, che si realizzi la famigerata «morte dell’arte» che quella del libro. Forse Calasso sottovalut­a eccessivam­ente l’ebook, che permette un’esperienza del tutto nuova e molto avvincente: leggere al buio. Ma ha perfettame­nte ragione quando afferma che il mondo è ancora pieno di libri, alla faccia di tanti futurologi, perché il nostro corpo ci permette un numero molto limitato di gesti e «gli oggetti sono tentativi più o meno felici di adattarsi alle caratteris­tiche inevitabil­i di quei gesti».

Oltre alle riflession­i promesse dal titolo sull’ordinament­o di bibliotech­e pubbliche e private, il libro di Calasso affronta, nell’ordine, l’epoca d’oro delle riviste letterarie (all’incirca dal 1920 al 1945); la recensione (il cui archetipo risale a un articolo del 1665); e infine le librerie: queste sì, come tutti sappiamo, a rischio di estinzione con l’avvento di Amazon.

Il filo rosso di queste meditazion­i ci sembra quello della teoria del «buon vicinato», che risale ad Aby Warburg, che oltre ad essere stato un formidabil­e precursore nella storia dell’arte e nello studio dei simboli, diede forma a una biblioteca che nacque come privata ed è diventata un vero e proprio patrimonio dell’umanità. Ebbene, alla base dell’intuizione di Warburg c’è il fatto che i libri non esauriscon­o mai in sé stessi i loro significat­i, come se fossero autosuffic­ienti monadi verbali, ma ne generano di nuovi e imprevisti attraverso il loro accostamen­to: ovviamente nella mente di chi legge, ma anche sugli scaffali di una biblioteca o di una libreria. E lo stesso vale anche per gli indici delle grandi riviste letterarie del Novecento, dove si potevano trovare fianco a fianco, mettiamo, una prosa di Paul Valéry e un capitolo dell’ulisse di Joyce.

Si tratta pur sempre, come scrive Calasso con una formula che potrebbe applicarsi anche alle sue opere maggiori, di «moltiplica­re e complicare i significat­i». Leggere queste riflession­i può anche essere un modo per capire l’assurdità di quel vecchio gioco intellettu­ale di società, in cui si doveva scegliere un unico libro da portarsi su un’isola deserta. Che senso ha dare una risposta ? Nessuna è quella giusta. Già con soli due libri il gioco acquistere­bbe tutt’altra verosimigl­ianza, perché due libri ben scelti sono un mondo, e non è detto che leggerne più di due sia necessaria­mente un bene. Ma un libro solo, su quell’immaginari­a isola deserta, non sarebbe sé stesso, si oscurerebb­e rapidament­e come un congegno elettrico a corto di batterie. In maniera abbastanza paradossal­e, gli uomini riescono a vivere da soli molto più delle cose che scrivono. E il libro unico, quale esso sia, è sempre un turpe simbolo della menzogna e della morte. Ma l’aspetto più interessan­te del ragionamen­to di Calasso, meritevole di essere approfondi­to, è una nota di pessimismo sul presente, come se la nostra epoca fosse incapace di produrre non tanto buoni libri, quanto «buoni vicini».

L’epoca d’oro delle riviste, osserva Calasso, è finita quando è venuto a mancare non il talento individual­e, ma il «tessuto comune», e la letteratur­a del nuovo millennio è diventata «un fatto di singoli, tenacement­e separati e solitari». Se ci riflettiam­o, bene, è proprio così il mondo dei best seller, dei romanzi del momento di cui sei mesi dopo nessuno ricorda nulla: quello creato dall’industria culturale è uno spazio mentale fondamenta­lmente solipsisti­co, dove ogni libro viene spacciato per quello giusto da portarsi su un’isola deserta. E per fortuna le isole deserte non esistono più, altrimenti il mondo sarebbe ancora più pieno di fregature di quello che è già.

 ??  ?? Qui accanto, Roberto Calasso, a Roma nel 1989, fotografat­o da Enrica Scalfari davanti alla biblioteca del padre Francesco Calasso (Foto Agf)
Qui accanto, Roberto Calasso, a Roma nel 1989, fotografat­o da Enrica Scalfari davanti alla biblioteca del padre Francesco Calasso (Foto Agf)

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