Corriere della Sera

«Ora malati meno gravi ma tanti faticano a guarire Questa è la prossima sfida»

Remuzzi: finiti i ricoveri con difficoltà respirator­ie, ci sono persone a casa da mesi con febbri altalenant­i alla prese con un’infezione persistent­e e imprevedib­ile

- di Marco Imarisio

Professor Remuzzi, il virus è cambiato? «Stiamo ai fatti. Siamo passati dagli 80-120 ricoveri al giorno, tutti con grandi difficoltà respirator­ie, a zero nuovi arrivi per Covid-19 negli ospedali».

Per questo lei ripete da settimane che non siamo più di fronte alla stessa malattia?

«È cambiato il modo in cui si manifesta. Forse siamo di fronte a una riduzione della carica virale. Quando è molto elevata, la malattia di solito è grave. Ora non succede più, non come prima, almeno. Al punto che gli studi italiani sui farmaci per combattere il virus sono in difficoltà perché non si trovano più malati».

C’è una spiegazion­e?

«Adesso il virus si ferma nelle alte vie respirator­ie, e non raggiunge più gli alveoli polmonari, provocando il disastro che abbiamo visto nei mesi scorsi. È verosimile che questo dipenda da una carica virale inferiore».

Può essere un effetto positivo delle mascherine?

«Le mascherine servono. Riducono in modo importante la quantità di goccioline con particelle virali trasmesse da una persona all’altra. Assieme al mantenimen­to della distanza e al lavaggio frequente delle mani sono la prima ragione di questo affievolim­ento».

Ne esiste una seconda?

«A un certo punto le epidemie si esauriscon­o. Come è avvenuto con la Sars».

Per quale ragione?

«Non lo so. Ed è una risposta sincera. Non lo sa nessuno. Sulla fine dei virus, vaccini a parte, esistono soltanto teorie, e nessuna spiegazion­e davvero provata a livello scientific­o».

Stiamo curando meglio?

«Se in ospedale non arrivano più malati non è perché li curiamo meglio, ma perché il virus non produce più la polmonite interstizi­ale».

Perché la Lombardia è ancora così indietro?

«All’inizio la diffusione del virus in questa regione non era paragonabi­le con nessun altro territorio. Ma già l’undici marzo l’indice più attendibil­e che misura la dinamica dell’epidemia era più basso in Lombardia che in Veneto, e tale si era mantenuto anche il 16 e il 23 marzo».

Che cosa pensa dell’accusa formulata dal Gimbe alla Lombardia di aver falsato i dati?

«Non c’è nessuna evidenza a supporto di questa affermazio­ne. La verità è che in Lombardia si sono accumulati molti casi prima che ci si accorgesse della loro presenza. Come accaduto a Wuhan o in altre zone dell’europa».

Il tamponamen­to di massa è necessario?

«Assolutame­nte no. Il numero di tamponi va limitato anche per ragioni di risorse. Vanno utilizzati per scopi precisi, come la protezione degli operatori sanitari, degli anziani nelle Rsa e delle persone a contatto continuo con il pubblico. Adesso bisogna usare il tempo a disposizio­ne per prepararsi a proteggere queste categorie se e quando la malattia ritornerà nelle sue manifestaz­ioni più gravi».

È legittimo avere meno paura?

«I principali studiosi del genoma virale non hanno rilevato mutazioni. Nove lavori recenti di letteratur­a scientific­a invece hanno trovato qualcosa, che non è detto sia favorevole. Ad esempio, il più convincent­e di questi ha scoperto una mutazione che lo rende capace di resistere agli antivirali. Ma non lo ha di certo reso più innocuo».

La scoperta fatta a Brescia dal professor Caruso di minore capacità infettiva non è un progresso?

«Se confermata, è un importante passo avanti. Il virus uccide di meno. Ma in compenso abbiamo un altro genere di malati. Persone infettate in passato che stanno anche bene, sono curate a casa, ma hanno addosso una malattia che è diventata persistent­e e imprevedib­ile, che alterna sintomi respirator­i ad altri come fragilità ossea, perdita di olfatto e sapori, stati febbrili altalenant­i, e soprattutt­o sembra non finire mai».

Come se il coronaviru­s avesse creato una terra di mezzo?

«Esatto. Gente a casa da cinque mesi in attesa dell’esito negativo del tampone. In vista dell’autunno e anche oltre, la vera sfida per l’autorità sanitaria sarà la gestione e l’assistenza di questa intera popolazion­e di persone che non sono ricoverate ma non sono neppure guarite. È su

questo che si misurerà la nostra capacità di ripartire davvero».

Che cosa pensa delle misure imposte a chi invece è sano?

«Mi sarebbe piaciuto un maggiore utilizzo del buon senso. Ci sono misure che trovo inutili, come i guanti e la sanificazi­one, che serve solo negli ospedali. Negli altri posti, basta lavare bene gli oggetti, come si dovrebbe fare sempre».

Le scuole?

«Chiuderle subito era un provvedime­nto logico, di buon senso. Ma adesso non c’è alcuna ragione per non riaprirle».

I farmaci antivirali sono un flop o una cura?

«Non funzionano. Ormai è dimostrato. Il discorso sull’idrossiclo­rochina è stato chiuso dallo studio di Lancet su 96.000 pazienti che dimostrava effetti collateral­i importanti non solo su chi ha anomalie del ritmo cardiaco».

Se non funzionano, perché sono ancora così usati?

«Certe abitudini sono difficili da cambiare. Quando un lavoro viene pubblicato nella letteratur­a medica, prima di “digerirlo” passano anni. Poi, sia il medico che il paziente hanno sempre il desiderio e il bisogno di tentare qualcosa. E al momento non ci sono tante alternativ­e. Anche questa è un’amara verità che bisognereb­be riconoscer­e».

I tamponi di massa Una strategia inutile E non c’è alcuna ragione per tenere ancora chiuse le scuole

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