Regioni-viminale, duello sulla data del voto
Pressing su Lamorgese dei presidenti, anche quelli pd De Luca duro con la ministra: lei un prefetto, io eletto La Camera rinvia il decreto che fissava il 20 settembre
L’altro ieri notte Luciana Lamorgese, finora ministra dell’interno benvoluta da tutto il centrosinistra in contrapposizione al suo predecessore Matteo Salvini, ha capito sulla sua pelle che cosa voglia dire fare politica. Al vertice con le Regioni la titolare del Viminale è stata attaccata da tutti. Governatori del Pd inclusi. Ma il più sferzante è stato Vincenzo De Luca. A un certo punto ha interrotto la ministra mentre spiegava le ragioni che consigliano di andare al voto il 20 settembre, e non prima, come vorrebbero cinque delle sei regioni chiamate alle urne, e le ha detto senza mezzi termini: «La smetta di fare il prefetto, io al contrario di lei sono stato eletto». Anche Stefano Bonaccini ha sposato, seppur con toni meno duri, le tesi dei suoi colleghi. E ha posto una questione di non poco conto: «Votano sei regioni — ha detto al vertice — come si fa a non tenere conto del loro parere per la data?».
Già, la data. Perché De Luca, Michele Emiliano, Giovanni Toti, Luca Zaia e Luca Ceriscioli contestano l’idea di andare al voto il 20 settembre? Ha spiegato Toti: «Non si può votare dopo l’apertura delle scuole». Significherebbe richiuderle subito, dopo mesi di inattività. «Siamo in presenza di una sospensione della Costituzione», ha tuonato Zaia. I governatori hanno scritto a Sergio Mattarella perché avrebbero voluto andare al voto a luglio e ora che non è più possibile minacciano di indire le elezioni il 6 settembre. Con buona pace dell’election day pianificato dal governo per il 20: Regionali, Comunali e referendum confermativo sul taglio dei parlamentari lo stesso giorno. Per un problema pratico, per risparmiare, ma soprattutto perché i grillini sono convinti che l’abbinata con il referendum faccia conquistare qualche consenso in più alle loro liste. È il motivo per cui chi si oppone al referendum non fa nessun affidamento sul «supplemento di riflessione» promesso da Conte sull’election day.
La situazione, comunque, è tale che il voto di ieri alla Camera sul decreto che indice l’election day è slittato all’8 giugno. Commenta il dem Stefano Ceccanti: «La drammatizzazione sulla data non ha molto senso, perché che si voti il 6 o il 20 il risultato non cambierà». Ma la verità è che i 5 governatori uscenti temono che si vada oltre settembre, magari sulla spinta di una nuova emergenza sanitaria. E hanno paura che la loro ricandidatura possa saltare.
Del resto, la finestra prevista dal governo va dal 15 settembre al 15 dicembre. Il 20, infatti, è la data decisa ora dall’esecutivo per trovare un compromesso tra i governatori e Forza Italia e FDI, che invece vogliono andare più in là. Nel centrodestra tace invece Matteo Salvini che sullo slittamento del voto vorrebbe consumare la sua vendetta contro Zaia, ma non può dirlo esplicitamente.