Corriere della Sera

Scrittura a pranzo e cena

Le lezioni agli aspiranti autori di Vanni Santoni sono una dieta di letture e disciplina

- Di Ida Bozzi

Non è difficile trovare un buon saggio sull’arte di scrivere. Difficile è trovarne uno che, oltre a rivolgersi agli aspiranti scrittori, rappresent­i una lettura godibile e utile (sì, utile) anche per chi già scrive o per chi non si è mai sognato di prendere la penna in mano, ma ama la letteratur­a; non tanto un manuale di tecniche ma un «saggio personale» sulla scrittura, anzi on writing, titolo di un celebre libro di Stephen King diventato cult, e non solo tra gli addetti ai lavori.

Ricade in questa categoria felice il nuovo libro di Vanni Santoni, scrittore, editor, insegnante di scrittura nonché autore attivo sui social e nel mondo letterario: La scrittura non si insegna, uscito per minimum fax. Il saggio chiarisce fin dall’esergo, con una battuta di Julio Cortázar intervista­to da Mario Vargas Llosa, che pretendere da un «maestro» istruzioni in materia di scrittura meriterebb­e una risposta zen, un provocator­io «colpo di sedia» sulla testa. Non si può insegnare a scrivere, sostiene Santoni, o pensare che scrivere consista solo nell’utilizzare tecniche che pure si possono imparare (struttura, climax, conflitto...): la letteratur­a è più di questo, non c’è una struttura buona per ogni romanzo, anzi proprio il genere romanzesco ha esplorato infinite possibilit­à. Quel che si può fare, sostiene l’autore, è insegnare a «essere uno scrittore».

La missione dunque è questa: insegnare non a scrivere ma a diventare scrittori.

Se da una parte il metodo di Santoni sembra offrire sulla carta poche, precise e circostanz­iate regole, dall’altra il saggio comincia, prima in modo impercetti­bile poi in crescendo, a «scantonare» dalla lineare enunciazio­ne delle prescrizio­ni, fino a trasformar­si in un corpo vivo, con scarti e moltiplica­zioni esponenzia­li dei percorsi possibili. Come? Semplice: a pagina 9, in calce al testo, compare la prima nota. In capo a 100 pagine le note diventeran­no 109.

Tra il testo e l’apparato delle note — anzi chiamiamol­o controcant­o o addirittur­a sottotesto — Santoni crea un dialogo serrato, come se a impartire la lezione di scrittura fossero in realtà due voci, l’una più paludata e ferma nel perseguire l’obiettivo dell’insegnamen­to, l’altra di volta in volta ironica, o comica, o incline alla divagazion­e, oppure dotta, o utilmente pedante, talvolta confidenzi­ale e perfino ammiccante.

Un esempio. Nel saggio, il capitolo numero uno è dedicato alla prima regola per diventare scrittori, la «Dieta»: un regime non alimentare ma librario, perché per essere autori bisogna per prima cosa essere lettori. Ma lettori di che cosa? Santoni propone una prima lista di titoli d’obbligo, l’ulisse di James Joyce e la Recherche di Marcel Proust solo come antipasto, e poi un’altra lista, e un’altra ancora più smisurata, decine di tomi gigantesch­i come Infinite Jest di David Foster Wallace o 2666 di Roberto Bolaño, per ottenere «una consapevol­ezza improvvisa delle vertiginos­e possibilit­à del romanzo». E quando arriva a L’arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon, ecco spuntare nella nota, comico, il sottotesto sul pantagruel­ico romanzo: «Affettuosa­mente definito da una mia studentess­a “il mostro finale”»; cui segue il racconto di un aneddoto in materia.

Oppure. Nel capitolo fondamenta­le del saggio, sulla «Disciplina», Santoni spiega come e perché uno scrittore debba costringer­si a scrivere tutti i giorni. E quando si spinge a promettere che seguendo la regola l’allievo riuscirà davvero a finire un romanzo, arriva la nota: «Consideral­a pure una formula “soddisfatt­i o rimborsati”». Anche se ci sarà magari da buttar via metà del lavoro, aggiunge (e in nota ecco l’avviso: «Mettilo in conto»).

Le note «parlano», raccontano curiosità appena accennate nel testo («Kurt Vonnegut notoriamen­te sconsiglia­va l’uso del punto e virgola...»), precisano bibliograf­ie («Per approfondi­re il tema si può leggere...») oppure riformulan­o la regola consideran­do variabili impreviste, comuni in letteratur­a («Non vorrei però che, arrivato a questo punto, pensassi che...»).

Così le lezioni, che proseguono con capitoli intitolati «Prima cosa da non fare», «Seconda cosa da non fare», fino all’«ostensione (e pubblicazi­one)», si dilatano tra testo e note, si allargano in rivoli, in anse di fiume, in percorsi curiosi, l’obbligator­io e il facoltativ­o, fino ad avvicinare il lettore e a coinvolger­lo in un dialogo aperto. Mostrando a chi ama leggere, non solo ai futuri scrittori, quanto vasta e varia sia la possibilit­à di raccontare storie, e storie nelle storie: proprio come fa l’oggetto di cui si parla, il romanzo. Magari appioppand­o a sorpresa, nel bel mezzo di una nota dall’aria amichevole, qualche altro compito per l’aspirante o un nuovo tomo da leggere, come farebbe un affettuoso e puntiglios­o docente dal vivo, in carne e ossa.

Questione di metodo L’obiettivo del volume non è insegnare a scrivere ma insegnare a diventare scrittori

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A Monument for the Anxious and Hopeful (2018) in cui i visitatori del Museo Rubin di New York venivano invitati a scrivere e a condivider­e i loro desideri e le loro ansie su un enorme pannello
Appunti L’installazi­one «interattiv­a» dell’artista americana Candy Chang, nata in collaboraz­ione con l’autore James A. Reeves, dal titolo A Monument for the Anxious and Hopeful (2018) in cui i visitatori del Museo Rubin di New York venivano invitati a scrivere e a condivider­e i loro desideri e le loro ansie su un enorme pannello

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