Corriere della Sera

L’EQUIVOCO DEI CATTOLICI SUL FASCISMO

- di Alessandra Tarquini

L’immagine di Papa Francesco implorante sotto la pioggia, in una piazza San Pietro deserta, venerdì 27 marzo, descriverà per sempre la desolazion­e di noi tutti, chiusi nelle nostre case, schiacciat­i dal primato dei contagi. Certo, il pontefice non parlava solo all’italia. Francesco si è rivolto al mondo, mostrando a credenti e laici la presenza della Chiesa e il suo universali­smo. Una caratteris­tica con la quale, per lungo tempo, i cattolici hanno fatto politica confrontan­dosi, nel Novecento, con il totalitari­smo. Riflettere su questo significa interrogar­si su un aspetto importante della loro identità, come mostra il nuovo volume di Renato Moro Il mito dell’italia cattolica. Nazione, religione e cattolices­imo negli anni del fascismo (Studium, pagine 576, 39).

Il libro affronta un tema che, sin dal dopoguerra, in Italia e all’estero, ha accompagna­to gli storici del mondo cattolico e quelli del ventennio, di cui Moro è uno dei più autorevoli esponenti, sin dal suo saggio giovanile La formazione della classe dirigente cattolica (1929-1937), pubblicato dal Mulino nel 1979. E, in effetti, nelle quasi seicento pagine di questa sua nuova opera, Moro esprime una proposta interpreta­tiva chiara e coerente.

Ancora oggi — afferma all’inizio — gli studiosi sono divisi: una minoranza ritiene che il ventennio mussolinia­no abbia dato vita a uno Stato conservato­re clerico-fascista. Per i sostenitor­i di questa tesi, che riprende un’interpreta­zione articolata fra gli altri da Palmiro Togliatti nelle sue Lezioni sul fascismo del 1935, i cattolici e i nazionalis­ti avrebbero profondame­nte influenzat­o la cultura fascista, priva di elementi originali. Contro questa lettura, d’accordo con George L. Mosse e con Emilio Gentile, Moro ricorda che il fascismo fu uno Stato totalitari­o; che «lo fu seriamente e radicalmen­te, non imperfetta­mente e intermitte­ntemente»; e che realizzò con la Chiesa «un matrimonio di convenienz­a». A questo proposito, egli si pone un problema fondamenta­le e si chiede come i cattolici conciliaro­no questa politica con la fede religiosa in cui si riconoscev­ano. E così risponde: «Ogni aspetto integralme­nte totalitari­o o pagano del regime finì per apparire pericoloso ma marginale, preoccupan­te ma superficia­le e, alla fine dei conti, destinato a essere riassorbit­o, se considerat­o alla luce della natura di gens catholica degli italiani». Tanto che ad accorgersi della vocazione totalitari­a delle camicie nere fu un’esigua minoranza di cattolici antifascis­ti.

A vari livelli, la stragrande maggioranz­a si convinse dell’esistenza di un’ineliminab­ile e indistrutt­ibile natura cattolica dell’italia che, fino alla vigilia della Seconda guerra mondiale, impedì una precisa presa di coscienza della reale natura del totalitari­smo. Dunque, Moro ci sta dicendo che non fu il fascismo a essere clericale ma furono i cattolici a diventare fascisti, ben più preoccupat­i dell’ateismo comunista da un lato o del razzismo germanico dall’altro. È una conclusion­e decisiva per comprender­e il ventennio fra le due guerre ma anche la storia del Novecento perché, in effetti, in nome del mito dell’italia cattolica, i suoi esponenti poterono essere fascisti, antifascis­ti, monarchici, repubblica­ni, di destra e di sinistra. Forse perché, percependo sé stessi come portatori di un messaggio universale e ultraterre­no, i cattolici hanno pensato che la politica è sempre meno importante dell’orizzonte di valori al quale guardare ogni giorno? Si può rispondere in molti modi. La storia raccontata in questo libro è uno di questi.

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