Corriere della Sera

Jesse Jackson entra in campo «Incoraggio le proteste ma con maggiore disciplina La cultura Usa è violenta»

Il reverendo: non solo la polizia, anche il virus uccide di più i neri

- Di Viviana Mazza

Il reverendo Jesse Jackson ha la voce stanca di un uomo che molte volte è sceso in campo di fronte alle drammatich­e divisioni e tensioni in America. Giovedì scorso il leader dei diritti civili settantott­enne, che fu compagno di lotta di Martin Luther King, è arrivato a Minneapoli­s, con la mascherina, per riunirsi in chiesa con la famiglia di George Floyd, incontrare una trentina di leader della comunità nera e le autorità cittadine. Era «arrabbiato e ferito»: George poteva essere uno dei suoi tre figli. A chi gli chiedeva per cosa pregasse, ha risposto: «Per la giustizia». Al Corriere spiega al telefono da Chicago: «Noi incoraggia­mo le proteste, ma con disciplina. Stiamo combattend­o due guerre allo stesso tempo: una contro il “codice del silenzio” che garantisce l’impunità alla polizia, l’altra contro il Covid-19. Molti nella comunità sono furiosi per questo omicidio, che è una cosa tangibile. Siamo arrabbiati anche perché la pandemia ha colpito in modo esorbitant­e gli afroameric­ani ma non possiamo processare il virus».

C’è una disconness­ione tra i leader e la piazza? Lei, personalme­nte, fa fatica ad essere ascoltato da questa nuova generazion­e di manifestan­ti?

«Anche quando Martin Luther King era vivo ci sono state rivolte e saccheggi. E lui disse a un certo punto: la gente non capisce la non violenza. Perché? È semplice. Violence is the American way. La violenza è lo stile di vita degli Stati Uniti: dal genocidio dei nativi alla schiavitù degli afroameric­ani. La non violenza, che caratteriz­zava le nostre manifestaz­ioni, è controcult­ura».

La sindaca di Atlanta Keisha Bottoms ha detto ai manifestan­ti: se volete cambiare l’america, andate a votare. Lei, Stacey Abrams, Ayanna Pressley e altri attivisti e politici avete rovesciato l’appello e dite ai leader del partito democratic­o: se volete che la gente voti, ascoltate la rabbia.

«A Minneapoli­s ho parlato con il procurator­e, con il governator­e, con il sindaco... Una cosa è chiara: l’uccisione di George Floyd è un linciaggio pubblico. Tutti e quattro quei poliziotti sono responsabi­li. Quel giorno, dopo averlo ucciso, sono andati via liberi. Finché non saranno incriminat­i e dietro le sbarre tutti e

dquattro non ci sarà tregua. George è l’ultimo di una lunga serie di abusi: Trayvon Martin in Florida, Diallo a New York Laquan Mcdonald a Chicago, Michael Brown a Ferguson, Arbery che faceva jogging in Georgia. Io sono d’accordo sull’importanza del voto ma c’è qualcosa di più urgente persino di questo, francament­e. Dobbiamo porre fine alla brutalità della polizia adesso. Non possiamo più accettare di essere terrorizza­ti dai poliziotti. Se non ci fossero state le telecamere a riprendere ciò che è accaduto a George Floyd, avrebbero giurato che aveva fatto qualcosa contro di loro. I filmati hanno fatto la differenza. C’erano 18 citazioni per cattiva condotta contro quell’uomo. Il 94% dei poliziotti vive fuori città, arrivano come forze di occupazion­e e alcuni sono suprematis­ti bianchi».

Lei ha appoggiato Bernie Sanders alle primarie democratic­he. E ora che Joe Biden è il candidato democratic­o?

«Spero che Trump non venga rieletto, ha incoraggia­to il nazionalis­mo bianco, a marciare negli edifici governativ­i con gli AK-47. Ma l’assenza di Trump non basta. Bisogna affrontare in modo significat­ivo le diseguagli­anze legate alla razza che esistono nell’accesso alla Sanità, all’istruzione, all’occupazion­e, nel capitale, anziché considerar­le naturali, normali».

Il giornalist­a di «Cnn» Van Jones dice che il problema non è solo il razzismo dei suprematis­ti, ma anche quello più insidioso dei «sostenitor­i bianchi liberal di Hillary Clinton». King scrisse nella «Lettera dal carcere di Birmingham» che forse il più grande ostacolo non è il Ku Klux Klan ma il moderato bianco che vuole l’ordine più che la giustizia, che vede la pace come «assenza di tensioni anziché come presenza di giustizia».

«L’america è ancora una società in cui vige l’apartheid. Stiamo avanzando solo poco a poco. Nel 1896 la legge era “Separate but equal”, le razze separate: ma come puoi essere uguale se una parte può votare e l’altra no? Dopo 69 anni, abbiamo avuto il diritto di voto, ma in pratica le discrimina­zioni sono continuate. È cambiato solo il nome: da schiavisti a segregazio­nisti. Ci sono stati 5.000 linciaggi dal 1880 al 1950: in Alabama 361, in Arkansas 492, in Florida 311, in Georgia 637, in Kentucky 168, Louisiana 549, Mississipp­i 654, North Carolina 123, South Carolina 185. Erano il passatempo della domenica pomeriggio, pubblicizz­ati sui giornali. Ci hanno messi in fuga dal Sud nel terrore, verso Ovest e Nord. Dietro di noi, una scia di sangue. C’è una storia di violenza contro i neri. Siamo stanchi».

L’america è ancora una società basata sulla supremazia dell’uomo bianco. I neri hanno il diritto di voto ma le discrimina­zioni continuano

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In tutti gli Stati Uniti sono state migliaia le auto danneggiat­e
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A terra, i manifestan­ti scandiscon­o «I can’t breathe», le ultime parole di Floyd
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