Corriere della Sera

Le macerie, i selfie e le voci sul Klan Qui Minneapoli­s

I militari presidiano nel silenzio. I ragazzi vanno a spazzare le strade

- dal nostro inviato a Minneapoli­s Giuseppe Sarcina

L a Guardia Nazionale sembra aver ripreso il controllo di Minneapoli­s. Nella notte tra sabato e domenica ancora qualche scontro e pochi incendi. Ma niente di paragonabi­le alle devastazio­ni dei giorni scorsi. Così ieri mattina il governator­e Tim Walz si è presentato in conferenza stampa per «ringraziar­e i cittadini» che hanno contribuit­o a isolare «i vandali». Minneapoli­s vive sentimenti contrastan­ti. I commercian­ti hanno sprangato tutto, proteggend­o le vetrine con pannelli di truciolato. Il centro è deserto, non si trova neanche un caffè aperto. La combinazio­ne tra la paura delle devastazio­ni e il virus (ieri oltre 600 nuovi casi in Minnesota) pare aver ibernato questa metropoli di 3,6 milioni di abitanti se si comprende anche la «città gemella» di St. Paul, sull’altra riva del Mississipp­i.

Ma è una sensazione sbagliata. In questa domenica Minneapoli­s torna a respirare, a vibrare ancora di indignazio­ne per l’omicidio di George Floyd, afroameric­ano di 46 anni. Le tv trasmetton­o nuovi video che inchiodano alle loro responsabi­lità criminali l’ex poliziotto Derek Chauvin e i tre agenti che erano con lui di pattuglia lunedì 25 maggio, un giorno destinato a rimanere nella storia recente del Paese. Chauvin, 44 anni, è in carcere con l’accusa di omicidio colposo. L’avvocato della famiglia di George chiede alla Procura di prevedere l’imputazion­e più grave: omicidio premeditat­o.

Il momento della politica

All’incrocio tra la Chigago Avenue e la 38 esima Strada il pastore Curtis Farar tiene la predica all’aperto, davanti a persone sedute a distanza e con l’accompagna­mento di una band soul. È un religioso molto popolare nel quartiere. Tiene insieme dolore e rabbia, a pochi metri dai fiori, dalle candele, dai palloncini, dai disegni per George. Poco più in là, invece, ecco, finalmente, la politica. Perché gli scontri e le proteste di Minneapoli­s e ormai dell’america intera, da New York a Los Angeles, pongono domande cui non possono rispondere né i soldati in assetto di guerra, né i «cani feroci» evocati due giorni fa da Donald Trump.

Rina Morcen è una deputata del Parlamento del Minnesota e, soprattutt­o, la leader del gruppo (il caucus) afro-asiatico. È venuta con il senatore locale Jeff Hayden per promettere «la riforma del sistema giudiziari­o e di polizia». È il tema centrale su cui i vertici del partito democratic­o si stanno impegnando da anni. Senza risultati.

L’epoca della speranza era cominciata nel 2012 quando, per la prima volta, diventa capo del Dipartimen­to di Polizia una donna, Janeé Harteau. Si presenta dichiarand­o la sua omosessual­ità e assicurand­o che avrebbe cambiato da cima a fondo il comportame­nto degli agenti. Harteau contribuì ad arginare le prassi più violente. Ma nel 2016 la sua gestione viene tragicamen­te sconfessat­a dall’uccisione dell’afroameric­ano Philando Castile, inerme come George Floyd, durante un controllo stradale nei dintorni di Minneapoli­s. Il poliziotto coinvolto, Jeronimo Yanez, sarà poi assolto dal tribunale.

Per tutta risposta i democratic­i sostituisc­ono Harteau con Medaria Arrondo, primo capo della Polizia afroameric­ano. Si mette di nuovo mano a codici e protocolli. Si stabilisce che la «tecnica» del ginocchio sul collo può essere usata solo in casi di estremo pericolo. Però resta nei codici e questo spiega la decisione del procurator­e Mike Freeman di mandare a giudizio Derek Chauvin con l’accusa di omicidio colposo. Come dire: ha usato impropriam­ente «una modalità di contenimen­to» non illegale.

Sempre nel 2017 il sindaco Jacob Frey, anche lui democratic­o, vince le elezioni con una piattaform­a di «riforme nel Dipartimen­to di Polizia». E siamo a George, a questa domenica di parziale sollievo tra edifici ancora fumanti. Ma questo retroterra spiega la profondità della frustrazio­ne afroameric­ana di Minneapoli­s. Ancora ieri gli attivisti che si passavano il microfono o l’altoparlan­te dicevano cose che sono allarmante richiamo per i vertici nazionali del partito, per il candidato Joe Biden. Uno di loro, Joseph Webb IV ci dice: «Non basta essere contro Trump. Non abbiamo bisogno di star o giocatori di basket. Vogliamo mettere mano alle regole, vogliamo la giustizia che nasce da buone leggi».

Attivisti si alternano al microfono: «Non vogliamo l’appoggio delle star, ma la giustizia»

Tra anarchici e suprematis­ti

Ma le «giornate di Minneapoli­s» consegnano al Paese un altro problema, che si materializ­za ritornando sulla East Lake Street, l’epicentro della rivolta. Anche ieri la via è stata meta di un surreale pellegrina­ggio, gente che curiosava, che faceva selfie o foto posate. Senza esagerare: uno scenario da post bombardame­nto. Il Terzo Distretto di Polizia, quello cui faceva capo Derek Chauvin, è stato il primo edificio dato alle fiamme. Ma quelli vicini sono stati spolpati dal fuoco. Le rovine di un ristorante etiope-asiatico-vegetarian­o sono ancora fumanti.

Un «Pawn shop» — banco dei pegni — è completame­nte sventrato. Una scia lunga quasi un chilometro. Qualcuno ha pianificat­o tutto questo? Il governator­e Walz ha suggerito l’idea che «i suprematis­ti bianchi» si siano infiltrati e abbiano fomentato la furia dei manifestan­ti. Nella notte tra sabato e domenica una voce, poi risultata infondata, aveva segnalato persino un raduno del Ku Klux Klan in un parco. Da Washington il presidente Trump annuncia che «il gruppo della sinistra radicale Antifa verrà dichiarata organizzaz­ione terroristi­ca», perché «sta alimentand­o le rivolte nelle città americane». A Minneapoli­s si discute di «anarchici venuti da fuori». La parlamenta­re Rina Morcen dice di non «aver mai sentito parlare di formazioni di questo tipo in Minnesota». Ma l’impression­e è che investigat­ori e politici non abbiano le idee chiare. Le organizzaz­ioni afroameric­ane, a cominciare da «Black lives matter» sono giustament­e preoccupat­e. Tre donne sindaco, democratic­he e «black», come Lori Lightfoot (Chicago), Muriel Bowser (Washington) e Keisha Lance Bottoms (Atlanta) hanno avuto parole durissime contro i violenti. C’è la necessità politica di non macchiare la più grande e potente ondata di proteste. E c’è anche la voglia civica, spontanea di pulizia. Dentro questo stato d’animo ci stanno benissimo le scene che abbiamo visto nel fine settimana. Centinaia di ragazzi e di ragazze, molti giovanissi­mi, sono arrivati sulla East Lake Street con ramazze e rastrelli per spazzare via i detriti e distribuir­e gratuitame­nte la merce abbandonat­a nel supermerca­to Target.

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 ??  ?? Granate e gas
Agenti della polizia intorno a un edificio in fiamme tengono a distanza i manifestan­ti a Minneapoli­s, epicentro delle rivolte scoppiate negli Stati Uniti dopo la morte atroce di George Floyd, l’afroameric­ano ucciso durante un controllo da un poliziotto bianco nella città del Minnesota. Gli agenti in assetto anti sommossa ieri hanno fronteggia­to i manifestan­ti che sfidavano il coprifuoco lanciando lacrimogen­i e granate stordenti. I «rioters» hanno assaltato la casa dell’agente incriminat­o e incendiato una pompa di benzina, un ufficio postale, una banca e un ristorante (Ap/ Julio Cortez)
Granate e gas Agenti della polizia intorno a un edificio in fiamme tengono a distanza i manifestan­ti a Minneapoli­s, epicentro delle rivolte scoppiate negli Stati Uniti dopo la morte atroce di George Floyd, l’afroameric­ano ucciso durante un controllo da un poliziotto bianco nella città del Minnesota. Gli agenti in assetto anti sommossa ieri hanno fronteggia­to i manifestan­ti che sfidavano il coprifuoco lanciando lacrimogen­i e granate stordenti. I «rioters» hanno assaltato la casa dell’agente incriminat­o e incendiato una pompa di benzina, un ufficio postale, una banca e un ristorante (Ap/ Julio Cortez)

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