Guglielmo, morto aspettando giustizia per la figlia Serena
Marcia indietro sul vitalizio per 1 solo giorno
A 71 anni compiuti Guglielmo Mollicone lottava contro il tempo. La tranquilla determinazione di questi anni non lo aveva mai abbandonato. Ma ora stava male. A fine novembre aveva subito un arresto cardiaco e da allora le sue condizioni erano gravissime. Finché ha potuto, però, Guglielmo ha continuato a sperare in un processo nei confronti degli assassini di sua figlia Serena, una 18enne così pulita da immaginare di poter fermare, solo con la sua indignazione, un presunto traffico di stupefacenti nella provincia di Arce. Per anni il signor Mollicone, ex maestro, aveva convissuto con la sua fame di giustizia come si fa con una compagna autoritaria: portando pazienza. Infaticabile e fiducioso, aveva dovuto attendere ogni genere di ritardo nella ricostruzione della vicenda di Serena.
«Finisce la vita di Guglielmo ma non la sua istanza di giustizia» dice oggi, avvilito, l’avvocato Dario De Santis che con lui aveva intrapreso la battaglia per impedire una nuova archiviazione del caso
La vicenda
● Il 1° giugno 2001 Serena Mollicone, 18 anni, di Arce (Frosinone), scompare e viene ritrovata senza vita due giorni dopo in un boschetto
● Nell’aprile 2019 la Procura chiede il rinvio a giudizio di 5 persone, fra cui 3 carabinieri
● Accusati dell’omicidio un maresciallo, la moglie e il figlio. Altri due carabinieri rispondono di favoreggiamento nel 2015. «È morto un uomo pacifico ma determinatissimo» chiosa l’ex procuratore di Cassino Luciano D’emmanuele che, dopo averlo incontrato tre volte nel suo ufficio, aveva scelto di andare avanti nell’accertamento della verità. Ancora pochi mesi fa, raggiunta dalla notizia del suo malore, Maria Tuzi, figlia del brigadiere coinvolto nella vicenda e morto suicida nel 2008 aveva scelto parole affettuose per esprimere il proprio stato d’animo nei confronti di Guglielmo Mollicone: «Aspettiamo con profonda amicizia e stima Gugliemo per riprendere il cammino che ci porterà alla verità».
Lucido, forte, caparbio anche se provato da anni di guerra contro menzogne e depistaggi, invenzioni e colpi di scena, papà Gugliemo non aveva smesso di sperare. «Finalmente i nodi stanno venendo al pettine» diceva in un’intervista alla radio privata Cusano Campus il 30 marzo 2019, dopo che la Procura era riuscita a rivitalizzare l’inchiesta e a ricostruire la fine di sua figlia Serena. Era in attesa dell’inizio del processo nei confronti di tre carabinieri e intanto, come per la famiglia Cucchi, aveva salutato positivamente il gesto del comando dell’arma: la costituzione di parte civile contro i militari imputati, Franco Mottola, Francesco Suprano e Vincenzo Quatrale.
Serena sparì da Arce il 1 giugno 2001 e il suo corpo, mani e piedi legati, fu trovato con la testa stretta in un sacchetto di plastica a due giorni dalla scomparsa, nel bosco Fonte Cupa di Anitrella (oggi ribattezzato Fonte Serena). Mille
Dolore Guglielmo Mollicone è morto ieri a 71 anni: sua figlia Serena fu assassinata nel giugno del 2001 e lui da allora si batteva per avere la verità ipotesi si succedettero ma nessuna portò a una sintesi credibile dei fatti. Lo stesso Guglielmo Mollicone fu fermato durante il funerale di Serena per presunti accertamenti che non portarono a nulla. Nel 2003 venne accusato Carmine Belli, un carrozziere di Rocca D’arce, assolto dopo aver trascorso un anno in carcere. La morte della ragazza era già un cold case quando, nel 2008, i pm ascoltarono il brigadiere Santino Tuzi, poco prima che si togliesse la vita: un colpo al petto con la pistola d’ordinanza a pochi passi dalla radura nella quale era stato trovato il corpo di Serena.
La nuova inchiesta viene aperta nel 2011 e subito coinvolge per omicidio Mottola, la moglie Annamaria e il figlio Marco. Pur di far parlare il corpo di Serena la Procura dispone accertamenti genetici, dattiloscopici e perfino botanici. Ma mancano prove certe e a Guglielmo Mollicone, nel 2015, tocca nuovamente lo sforzo di opporsi a una nuova richiesta di archiviazione. Si arriva così a febbraio 2019 quando i magistrati formulano l’ultima versione dei fatti. Serena, secondo questa ricostruzione, fu convocata in caserma per dissuaderla dal denunciare il giro di stupefacenti e colpita da Franco Mottola in un momento di rabbia. Quindi trasportata e lasciata morire nel boschetto di Arce. A luglio l’udienza preliminare. Ma Guglielmo non ci sarà.
Aveva creato scandalo la decisione presa all’unanimità (e in pochi minuti) dal Consiglio regionale della Calabria di permettere a qualunque eletto — anche chi fosse decaduto, o rimasto in carica solo per un giorno, o addirittura dichiarato ineleggibile — di maturare il «trattamento di fine mandato» e ottenere, compiuti i 65 anni, un vitalizio di 600 euro al mese. Tanto scandalo che, appena cinque giorni dopo il voto, già si corre ai ripari: mercoledì un consiglio straordinario provvederà ad abrogare completamente la norma. E dire che tutti i capigruppo di maggioranza e di opposizione si erano trovati d’accordo sul ripristino di quello che è sembrato un ritorno del vitalizio ma che secondo i proponenti non lo era. L’intenzione infatti, avevano spiegato, era di permettere a chi fosse stato eletto di pagare contributi per cinque anni, anche se il mandato era stato interrotto, per poi riprenderli «senza oneri aggiuntivi per la regione» dopo i 65 anni come indennità di 600 euro al mese. In verità i conti non tornavano: in base alla norma, si sarebbero versati circa 38.000 euro in cinque anni ricevendone poi per dieci anni 72.000. E in ogni caso una cosa è svolgere davvero l’incarico per un’intera legislatura, altra non farlo e versare solo contributi figurativi. Da qui le roventi polemiche: i Cinque Stelle hanno gridato alla «legge vergogna», con il ministro degli Esteri Luigi Di Maio che ieri ha tuonato: «La politica deve dare il buon esempio. E se non riesce a farlo in una situazione del genere, allora significa che non lo farà mai più». A seguire, a rompere il silenzio del centrodestra è stato Matteo Salvini: «I calabresi sono gente tosta che chiede più lavoro, strade e ferrovie sicure, ospedali efficienti e un futuro per i propri figli, non certo vitalizi ai politici». E la marcia indietro è arrivata.