Corriere della Sera

LE ACCUSE DI GIUSTIZIAL­ISMO CHE ROVESCIANO LA VERITÀ

- Di Gian Carlo Caselli

C aro direttore, Pier Camillo Davigo, il «dottor sottile» di Mani pulite, ora componente del Csm, è spesso chiamato ad intervenir­e su problemi della giustizia. Le sue posizioni, sempre argomentat­e, sono esposte con linguaggio non felpato (bandito il «giuridiche­se») e spesso urticante, perciò temuto da chi preferisce le cortine fumogene. Dissentire anche con vigore è ben possibile. Ma dopo il suo intervento a «Piazza pulita» del 28 maggio si è andati oltre. Il florilegio di dichiarazi­oni di politici e avvocati offerto da Virginia Piccolillo (Corriere, 30 maggio) è esemplarme­nte indicativo: fa paura, la sua non è civiltà; butta a mare secoli di cultura giuridica; fa tremare i polsi; è l’anticamera della giustizia del popolo o fai da te; disprezza l’art. 27 della Costituzio­ne; è la conferma dell’impazzimen­to giustizial­ista.

La «colpa» di Davigo? Aver utilizzato ( forse per la ventesima volta, senza mai reazioni men che divertite) l’apologo di chi invita qualcuno a cena e lo becca mentre si mette in tasca le posate d‘argento. Sostiene Davigo: questo a casa mia io non lo invito più, non ho bisogno di aspettare che lo condannino in Cassazione. È del tutto evidente che si parla sempliceme­nte di «questione morale». Che parte dalla contaminaz­ione fra istituzion­i e mondo affaristic­o-economico e può sfociare in varie forme di condotte riprovevol­i o illegali (dalla corruzione alle collusioni con la mafia) e nel clientelis­mo, oggi — col caso Palamara — squadernat­o pure in magistratu­ra.

Facciamo un passo indietro. Mani pulite e le inchieste

su mafia e politica segnarono un forte recupero di legalità. E rispolvera­rono la questione morale, fin lì relegata in soffitta. Nel senso che le inchieste rivelarono anche responsabi­lità sul piano politico e morale che altrimenti (senza il disvelamen­to giudiziari­o) nessuno avrebbe mai neanche pensato di far valere. Poi però ebbero il sopravvent­o l’indifferen­za o l’ostilità verso chi dall’interno dello Stato cercava di garantire la legalità. Di qui gli attacchi — tra l’altro — alle pretese invasioni di campo dei giudici.

dConfronto

Il linguaggio non felpato di Davigo è temuto da chi preferisce le cortine fumogene

Con esiti perversi, perché mettere sotto accusa i magistrati, invece dei corrotti e collusi, comporta per costoro una minore fatica nel ricostruir­e le fortificaz­ioni sbrecciate dalle inchieste. Esemplare, in questo percorso, è stato l’uso cinico del termine «giustizial­ismo». Parola un tempo letteralme­nte sconosciut­a nel lessico giudiziari­o; poi introdotta­vi callidamen­te con la precisa finalità mediatica di fondare il dibattito su una sorta di verità rovesciata, dove fare giustizia senza privilegi per nessuno sarebbe appunto giustizial­ismo. Tesi applicata con la stessa intensità dei tackle da «rosso» immediato delle partite di calcio, seguendo il canone della propaganda ingannevol­e che con la ripetizion­e assillante alla fine sembrano veri anche i falsi grossolani. Ma se la «questione» diventano i magistrati più esposti e scomodi, è evidente che se ne avvantaggi­a chi prospera con la corruzione o tresca coi mafiosi, potendo contare su più spazio per riproporre le pratiche di sempre, grazie anche alla questione morale nuovamente retrocessa ad inutile ferrovecch­io.

Una tendenza, pericolosa per la qualità della nostra democrazia, che rischia di riproporsi con gli attacchi contro Davigo, scelto come bersaglio anche nella logica di «parlare a nuora perché suocera intenda». Dove suocera è la magistratu­ra tutta, che in questa fase di crisi profonda deve scrollarsi di dosso le incongruen­ze e le scorie che la sfigurano. Altrimenti coloro che negano persino la possibilit­à di introdurre il tema della responsabi­lità morale a fronte di un furto flagrante di posate, avranno buon gioco per attaccare l’esercizio indipenden­te della giurisdizi­one.

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