Corriere della Sera

LA STRADA GIUSTA PER IL DOPO

Mattarella ha scelto Codogno per rendere omaggio alle vittime, confortare i sopravviss­uti e dire grazie a coloro che hanno contenuto il disastro

- di Carlo Verdelli

P ochi accadiment­i nella storia recente hanno segnato così nettamente un prima e un dopo. Il Muro di Berlino (9 novembre 1989). Le Torri Gemelle, New York (11 settembre 2001). La crisi finanziari­a del 2007-2008, culminata con il fallimento di Lehman Brothers. Anche adesso siamo lì, in bilico sulla frontiera ancora incerta disegnata da un virus mondiale e mortale, che ha devastato con una furia improvvisa milioni di vite in ogni continente e mandato all’aria l’ordine costituito delle cose e delle persone. Da noi, piccolo Paese già fragile, molto più che altrove.

Il giorno della Festa della Repubblica cade proprio in questa sottile striscia di mezzo, che separa i lutti e le angosce dell’era, cento giorni, dell’ira del Covid-19, dai mille e più giorni che ci vorranno per ricostruir­e il tanto che è andato perduto, e possibilme­nte ricostruir­lo meglio di com’era. Questa almeno sarebbe la speranza. Le prime mosse di chi ha una qualche responsabi­lità nella delicatiss­ima fase della ripartenza non lasciano però grandi spazi all’ottimismo, improntate come sembrano a salvaguard­are interessi di categoria o di partito o comunque di bottega, piuttosto che a una rifondazio­ne pensata per il bene di tutti, a cominciare dai più deboli, dai più esposti alla coda lunga del coronaviru­s. Dice con saggezza profetica Papa Francesco: «Peggio di questa crisi, c’è solo il dramma di sprecarla». Ecco, il rischio lo si avverte, camuffato dall’illusione che il prezzo della salvezza di pochi possa essere sopportato dall’emarginazi­one di molti.

Il Presidente Mattarella è la sentinella sul confine di questo nostro scivoloso presente. Ha scelto di onorare il 2 giugno andando da solo a Codogno, il paese della Bassa lodigiana dove la notte del 20 febbraio è cominciato l’incubo italiano. Per rendere omaggio alle vittime, per confortare i sopravviss­uti, per dire grazie a tutti coloro, cominciand­o da medici e infermieri, che anche a costo delle proprie vite hanno contenuto le dimensioni del disastro.

Un disastro che resta imponente, da qualsiasi lato lo si esamini. Più di 33 mila morti, di cui 27 mila sopra i 70 anni, la metà dei quali soffocati nelle residenze per anziani, uno degli inferni più vergognosi per un Paese civile, con la ricca Lombardia a rappresent­arne l’epicentro (primato valido anche per numero complessiv­o di contagiati e di decessi: no, qualcosa non ha funzionato nella ricca Lombardia). E poi le scuole, con il non invidiabil­e record di essere state le prime a chiudere e le ultime a riaprire, forse a settembre e comunque dopo tutto e tutti, come se l’istruzione non fosse un bene primario da tutelare e su cui investire. Ma qualsiasi dato si esamini, è da bollettino infausto di guerra. Il 40 per cento delle famiglie faticherà a pagare l’affitto nei prossimi mesi. L’80 per cento delle imprese che hanno riaperto (il 20 per cento che manca rischia di non farlo più) denuncia perdite superiori a metà del fatturato. Si parla come di una fatalità ineluttabi­le dell’imminente scomparsa di un milione di posti di lavoro, 700 mila nell’ipotesi più favorevole.

La ripartenza Rimuovere gli ostacoli dovrebbe essere una delle direzioni di marcia del futuro che ci aspetta



Il pacato grido d’allarme del Governator­e della Banca d’italia, Ignazio Visco, che qualche giorno fa ha annunciato un crollo del Pil del 13 per cento e invocato un patto tra governo, istituzion­i e imprese per evitare il baratro, è stato accolto con un generale plauso di approvazio­ne e un’altrettant­a frettolosa archiviazi­one come ipotesi di pura retorica. Ma se il «nuovo contratto sociale» auspicato dal Governator­e non prenderà davvero forma e sostanza, la deriva più probabile è che venga sostituito da un «nuovo contagio sociale», sul quale già soffiano con guance rigonfie gli alfieri del «tanto peggio», irresponsa­bili al punto da anteporre un incasso elettorale da malcontent­o al destino di un Paese che già nelle prossime settimane, a cominciare dal Consiglio europeo del 19 giugno, si giocherà una fetta importante di questo inatteso presente e del senso che l’italia deciderà di darsi.

Essere una Repubblica, come è stato deciso nel referendum del 1946, non significa soltanto aver scelto di non avere un re. Ricordava ieri su questo giornale Marta Cartabia, presidente della Corte costituzio­nale, che Repubblica è un termine carico di storia e di significat­i. Tra questi, il compito di rimuovere, come da articolo 3 della Costituzio­ne, «gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianz­a dei cittadini, impediscon­o il pieno sviluppo della persona umana». Rimuovere gli ostacoli sarà, dovrebbe essere, una delle direzioni di marcia del «dopo» che ci aspetta. Non c’entra il buonismo, e nemmeno l’appartenen­za politica: è un dovere, scritto nella Carta che ci siamo dati, e vale come tale nella buona ma soprattutt­o nella cattiva, o quantomeno difficilis­sima, sorte.

Proprio al parto della Repubblica, dopo le devastazio­ni della Seconda guerra mondiale, fa riferiment­o Mattarella quando collega lo sforzo di unità, che permise all’italia lacerata di allora di rinascere, alla necessità urgente di ritrovare, nel tempo dell’oggi, quello stesso comune sentire. «Come abbiamo ricostruit­o il Paese settant’anni fa, possiamo assumere questo 2 giugno come l’inizio della nostra ripartenza». Ritrovare nel momento cruciale di passaggio dal «prima» al «dopo» il vero volto della Repubblica, cioè il perseguime­nto del bene come bene di tutti.

I tricolori che ancora pendono sbiaditi da qualche balcone, il sentimento nazionale che all’inizio della pandemia provò a reagire al terrore del virus con l’innocente ma collettivo «andrà tutto bene», sono la prova che c’è un’italia che non ha dimenticat­o di essere un popolo e si è ricordata del valore di saper resistere. Resistere al male, quale esso sia, da ovunque provenga, dalle viscere della natura come da una brutalità della Storia. Quando la sentinella Mattarella dice «sono fiero del mio Paese», guarda allo straziante «prima» ma indica anche una strada, e un desiderio, per il «dopo» che ci sta aspettando.

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy