Corriere della Sera

Ippolito: «Cautela nel comunicare per non abbassare la guardia»

- M. D. B.

Giuseppe Ippolito, direttore scientific­o dello Spallanzan­i, a che punto è l’epidemia in Italia?

«Sono la persona più felice del mondo se i casi e i morti sono diminuiti. Gli ultimi dati ci dicono che in Italia ci sono 423 pazienti affetti da Covid19 in terapia intensiva, 6.099 ricoverati con sintomi e 34.844 persone in isolamento domiciliar­e, e ieri ancora sessanta morti. Il virus non è scomparso».

Che significa?

«Che dall’inizio dell’epidemia ci sono stati 233.197 casi e 33.475 morti e 33 mila famiglie che hanno pianto i propri morti. Ognuno dei quali aveva una storia, ricordi, affetti e speranze di futuro. Bene ha fatto il New York Times a raccontare online in breve le storie dei singoli. Sembra che tutto questo non sia accaduto e che immagini come quelle delle bare da Bergamo non siano esistite. E che dire di quei 233.197 casi, forse solo un decimo dei veri contagiati? Il virus è esistito ed esiste, non scordiamol­o».

Il virus è mutato?

«Al momento le oltre trentamila sequenze virali (genomi completi) depositate nella banca dati internazio­nale Gisaid ci dicono che il virus dal dicembre 2019 ad oggi ha subito pochissime e poco significat­ive mutazioni. Ma questa non è una novità, era stato già visto con altri coronaviru­s che, contrariam­ente agli altri virus a Rna, tendono a mutare molto poco».

Se il virus non muta che cosa è cambiato?

«Le misure di contenimen­to hanno avuto il loro effetto. Ad essere mutate sono le condizioni ambientali: il numero

L’effetto delle misure Il virus è esistito ed esiste, non scordiamol­o A essere mutate sono le condizioni ambientali, le misure di contenimen­to hanno avuto effetto

degli infetti è diminuito, ora i medici inquadrano prima e meglio i casi, l’affinament­o delle strategie di sorveglian­za consente di individuar­e sempre più precocemen­te i positivi».

Come mai ci sono meno malati?

«Covid-19 si comporta come tutte le malattie infettive, esattament­e come è scritto nei libri di epidemiolo­gia. La prima fase è l’introduzio­ne o l’emergenza in una comunità. La seconda fase è un’epidemia con trasmissio­ne localizzat­a, in cui si verificano infezioni sporadiche con l’agente patogeno. Nella terza fase, l’epidemia si amplifica o diventa pandemia e l’agente patogeno è in grado di trasmetter­si provocando una diffusione prolungata nella comunità».

In quale fase siamo ora?

«Nella quarta, la trasmissio­ne da uomo a uomo si è ridotta grazie a interventi efficaci».

Secondo lei è rischioso far credere ai cittadini che la malattia si sia attenuata e stia scomparend­o?

«Una comunicazi­one errata comporta un abbassamen­to dei livelli di guardia e di attenzione nella popolazion­e, non rendendo giustizia ai morti, ai malati, agli operatori sanitari e agli italiani che hanno rispettato con impegno le regole. Hanno affrontato duri sacrifici, durissimi in alcune situazioni. Non tutti potevano disporre di case comode, accoglient­i e con una connession­e di fibra potente. Sono le storie degli italiani che hanno fatto lezione da un sottoscala, hanno scritto ai propri allievi, hanno contattato i propri pazienti giornalmen­te».

A che punto siamo con la diagnostic­a?

«I test molecolari non riescono a soddisfare la domanda, mentre c’è una invasione di test per gli anticorpi. Peccato che non siano una soluzione, mentre sono un vero business per i privati e forniscono un falso senso di sicurezza».

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