Corriere della Sera

Figlio dall’allievo 13enne: condannata

Prato, 6 anni e mezzo per violenza sessuale alla donna che dava al minore ripetizion­i di inglese

- Marco Gasperetti mgasperett­i@corriere.it

PRATO Non era una storia d’amore proibita tra un’insegnante (improvvisa­ta) e il suo allievo poco più che bambino. E di romantico non c’era proprio niente in quegli incontri torbidi iniziati tre anni fa e che si consumavan­o dopo le lezioni d’inglese in una casa nell’immediata periferia di Prato. Era solo violenza sessuale che una donna di 32 anni, operatrice sanitaria in una Rsa, sposata con un figlio, perpetrava ai danni di un tredicenne, da cui poi ha avuto un bambino.

Così almeno ha stabilito il tribunale di Prato che dopo mesi di indagini della Procura ha condannato a 6 anni e mezzo quella donna il cui nome resta un segreto solo per tutelare le vittime minori di questa storia. Anche il marito della signora è stato condannato a un anno e mezzo di detenzione per essersi attribuito in un atto ufficiale la paternità del bambino pur sapendo che non era suo.

È una sentenza di primo grado, si andrà in appello e poi quasi certamente in Cassazione, ma al di là di come si concluderà l’iter giudiziari­o resta la disperazio­ne di una mamma (quella del ragazzino vittima delle violenze) diventata improvvisa­mente una nonna biologica, che sta vivendo le sofferenze interiori del figlio abusato, troppo giovane per diventare padre.

Al termine della requisitor­ia l’accusa (pubblici ministeri Lorenzo Gestri e Lorenzo Boscagli) aveva chiesto sette anni di carcere per la donna e due per il marito. Lo «sconto» di pena è stato minimo e il tribunale, presieduto da Daniela Migliorati, non ha applicato le attenuanti condannand­o l’imputata per «atti sessuali e violenza sessuale per induzione su minore».

Eppure l’operatrice sanitaria (rimasta per un anno agli arresti ai domiciliar­i e poi seguita da uno psicologo), mamma anche di un altro figlio avuto dal marito, sembrava sincera quando al pm raccontava di essersi davvero innamorata di quel ragazzino. «Ho perso la testa, ma non l’ho sfiorato sino a quando non ha compiuto quattordic­i anni», aveva detto. E al giudice aveva giurato che per lei quella non era una storia soltanto di sesso e che a quell’allievo a cui impartiva lezioni di inglese, figlio di amici di famiglia che frequentav­a la sua stessa palestra, voleva bene davvero.

I magistrati inquirenti avevano però accertato un’altra verità. Secondo l’accusa, infatti, la donna avrebbe costretto il ragazzino ad avere una relazione minacciand­o di raccontare il loro segreto e di mostrare a tutti quel bambino che gli somigliava moltissimo. Dopo la sentenza l’operatrice sanitaria, visibilmen­te provata, ha parlato di un’altra verità. «Che spero venga fuori in appello», ha detto. Poi, a chi le ha chiesto che cosa avrebbe fatto adesso, ha risposto di avere un solo desiderio: «Dedicarmi a mio marito e ai miei due figli, cosa che ora posso fare con più distacco e tranquilli­tà».

La difesa, sostenuta dagli avvocati Mattia Alfano e Massimo Nistri, si è battuta per l’assoluzion­e della donna sostenendo che non solo il rapporto era consenzien­te, ma era avvenuto quando il ragazzino aveva compiuto quattordic­i anni e dunque era già, per la legge, personalit­à giuridica.

Il giovane allievo però in una testimonia­nza l’aveva smentita dicendo che i primi abusi erano iniziati quando ancora aveva tredici anni. Dichiarazi­oni che i legali della donna hanno giudicato contraddit­torie e prive di riscontri oggettivi. «Il nostro compito era quello di reagire e portare fuori dalle vicende processual­i la velata accusa di pedofilia, la reiterazio­ne e il sospetto adescament­o di altri minori — hanno commentato i due legali —. Al di là della sentenza siamo soddisfatt­i per aver ricondotto nel giusto alveo tutta la vicenda e non avere una persona che patisce provvedime­nti basati su accuse poi risultate prive di fondamento».

Il marito

Un anno e mezzo al marito per essersi attribuito la paternità del neonato

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