Le pestilenze passano Gli eroi a Milano no
Il giudice Guido Galli assassinato dai terroristi nel 1980 come i patrioti del Risorgimento e della Resistenza
Mi sembra che La città degli untori, anche a rileggere il libro dieci anni dopo, possa venir definito un viaggio nel tempo dentro il cuore di Milano. Quando cominciai a pensar di scriverlo avevo in mente di raccontare soltanto la vita di un uomo giusto, generoso, di grande intelligenza, il giudice Guido Galli assassinato dai terroristi di Prima linea il 19 marzo 1980 nel corridoio al secondo piano dell’università statale di via Festa del Perdono, l’antico ospedale.
L’immagine del magistrato, ucciso proprio davanti all’aula dove doveva tenere la sua lezione di Criminologia, sembra una stampa popolare, protagonista la sacralità della giustizia: il cadavere dell’uomo sul pavimento, il codice aperto, gli occhiali spezzati. Un atroce simbolo.
Con la sua sagacia, la sua sottigliezza umana e giuridica, il suo coraggio, aveva capito gli anfratti più segreti del terrorismo e i terroristi avevano capito la sua pericolosità di illuminato uomo di legge capace di svelare i loro piani di morte. Ma la vita di Guido Galli, ora quasi dimenticato nonostante sia stato, nel tragico
Novecento, uno dei grandi magistrati di que
sto Paese, fu ed è, nella sua esemplarità, difficile da narrare: il lavoro quotidiano indefesso, tra la casa, in corso Plebisciti, e il Palazzo di giustizia, su e giù sull’autobus, privo di ogni protezione nonostante le minacce di cui doveva sapere senza parlarne mai. L’unica distrazione era la montagna dove andava appena gli era possibile, raramente. Il più del tempo lo passava in una stanzina del tribunale, all’università dove insegnava da anni e tra i familiari cui era profondamente legato.
Capii che mi sarebbe stato difficile scrivere tutto un libro su quell’integerrimo magistrato.
La sua era una vita semplice racchiusa soprattutto sulle sudate carte. Era arduo parlar di lui al di là di un disegno, di un ritratto, sia pur ampio e corposo. Senza dimenticare mai Guido Galli uscii allora, non solo metaforicamente, dal Palazzo di giustizia e dall’università dove decenni prima mi ero laureato proprio in una di quelle aule e, come un flâneur, cominciai a girovagare nelle vie e nelle piazze della città alla confusa ricerca di storie più o meno omogenee di persone e di fatti di ogni epoca da legare alla vita perduta del giudice.
Sono sempre stato attratto dalle lapidi murate sulle facciate delle case. Non le lapidi dedicate ai grandi della terra che anche a Milano ho guardato fin da ragazzo con timido rispetto, Cesare Beccaria, Carlo Cattaneo, il Manzoni, Quasimodo, premio Nobel 1959, in corso Garibaldi (privo di ogni data, senza tempo) e gli ospiti, il Petrarca, di fianco alla basilica di Sant’ambrogio, Mozart fanciullo, vicino alla chiesa di San Marco, il convento dei padri Agostiniani, Hemingway sulla casa di via Armorari che fu ospedale della Croce rossa americana, nel 1918, dopo che fu ferito sul Piave e (più di un secolo prima) Stendhal, in corso Venezia, sottotenente del 6° Dragoni, ricordato da una lapide quasi nascosta su un palazzo della borghesia doviziosa.
Ma erano i senzanome, con i fiori appassiti sui poveri marmi e le coroncine d’alloro cadute spesso sui marciapiedi, dopo le feste nazionali, a ferirmi ogni volta il cuore. Chi erano Clodomiro Angelini, Costantino Codini, Luigi Schezzi che abitavano nella stessa casa in via Ceresio, «combattenti per la libertà/ eliminati nel campo di Mauthausen»? E chi erano quei partigiani caduti proprio «Qui in via del Bollo», una stradetta non lontana dalla Banca d’italia: Natale Mapelli, ventenne, e Giuseppe Taviano, qualche anno in più, «uccisi dall’oppressione nazifascista» proprio il 25 aprile, il giorno della Liberazione? Sul piccolo marmo, dice la scritta, li ricordano I compagni. (Ne valeva la pena nel nostro non felice Paese dove sono rispuntati i simboli e risuonano le voci di un rovinoso passato persino preso a modello, l’antisemitismo, il razzismo?) E poi sempre care mi sono sempre state due lapidi, quella famosa del tappezziere Antonio
Martire Qui sopra: il giudice Guido Galli, trucidato dai terroristi di Prima Linea nei corridoi dell’università Statale di Milano, dove insegnava, il 19 marzo 1980; aveva 47 anni
Sciesa, vicino alla Biblioteca Ambrosiana: «All’austriaco gendarme/ che vita e denaro gli offriva a patto di delazione/ sprezzante e sdegnato rispondeva: Tiremm Innanz». Nel 1851. (Due anni prima che in un prato verde, sui bastioni del Castello Sforzesco, andassero a morte i patrioti mazziniani, «Qui sorsero le forche».) I signori, invece, venivano impiccati nella più discreta ed elegante piazzetta dei Mercanti. Mi immedesimavo ogni volta in quelle sto
rie di uomini di secoli lontani. Erano loro la trama del libro che volevo scrivere, una satura di quelle voci che avevano lasciato il segno sul marmo. Doveva essere la città, protagonista, la città della dignità,del coraggio, della voglia di riscatto ben rappresentata nel tempo della Resistenza al fascismo.
Avrei dovuto raccontare, poi, anche la città del male di vivere, dell’illegalità, del malaffare dei governanti e dei pavidi sudditi. (Non soltanto le ammirate vite degli eroi borghesi e proletari.)
Caminante nei secoli, dalla peste e dal Lazzaretto all’età dei Lumi al massacro del generale Bava Beccaris al fascismo alla Liberazione alle stragi che hanno tentato di frantumare la Repubblica e la Costituzione: piazza Fontana, poi — la bomba alla Banca dell’agricoltura dove, per un gioco del caso, ero entrato tra i primi in quella macelleria dell’orrore — fino al fragile presente. Il giudice Guido Galli era l’avvio, la vittima innocente al quale la città e l’intero Paese dovevano rendere onore.
Le ambizioni di chi scrive possono essere infinite. Pareva un’enciclopedia quel che mi proponevo di fare. Nelle pagine di questo libro sono rimasti soltanto i frammenti di vita di una comunità in tempi, il più delle volte cupi, privi di illusioni e di speranza, pieghe e piaghe dell’esistenza. L’uomo e la storia.
«La storia non si snoda/ come una catena/ di anelli ininterrotta./ In ogni caso/ molti anelli non tengono./ La storia non contiene/ il prima e il dopo […]» (La storia di Eugenio Montale, da Satura, Mondadori, Milano 1971).
Ricordo come mi colpirono, leggendo e rileggendo I promessi sposi le pagine sulla processione riparatrice durante la peste del 1630 dietro l’urna di san Carlo. Una caduta della ragione provocata dal terrore.
«Andava dinanzi una lunga schiera di popolo, donne la più parte, coperte in volto d’ampi zendali, molte scalze, e vestite di sacco. Venivan poi l’arti, precedute da’ loro gonfaloni, le confraternite, in abiti vari di forme e di colori; poi le fraterie, poi il clero secolare, ognuno con l’insegne del grado, e con una candela o un torcetto in mano. Nel mezzo, tra il chiarore di più fitti lumi, tra un rumor più alto di canti, sotto un ricco baldacchino, s’avanzava la cassa, portata da quattro canonici, parati in gran pompa, che si cambiavano ogni tanto. Dai cristalli traspariva il venerato cadavere vestito di splendidi abiti pontificali, e mitrato il teschio; e nelle forme mutilate e scomposte, si poteva ancora distinguere qualche vestigio dell’antico sembiante, quale lo rappresentano l’immagini, quale alcuni si ricordavan d’averlo visto e onorato in vita. Dietro la spoglia del morto pastore […] e vicino a lui, come di meriti e di sangue e di dignità, così ora anche di persona, veniva l’arcivescovo Federigo.»
Un’idea balzana, una follia nata dalla disperazione quell’ingorgo che merita davvero la parola pestilenza. E infatti il giorno seguente, era il 12 di giugno 1630, le morti «crebbero in ogni classe, in ogni parte della città» e anche il Manzoni, attento a criticare l’amato cardinal Federigo, fu costretto a scrivere che «non ci fu chi non ne vedesse la causa, o l’occasione, nella processione medesima».
La minaccia del morbo porta disordine, confusione, difformità di giudizio, disarmonia delle menti. È accaduto anche nel nostro 2020 — il Coronavirus, il Covid-19 — non certo da assimilare, è la speranza, alla peste secentesca. Chissà che non venga in mente a qualche intelletto sottile di organizzare un corteo riparatore nella Milano inquietamente deserta. Ma chi potrebbero essere gli untori di oggi?
Una magnolia con le bianche corolle aperte, vicino alla basilica di Santa Maria delle Grazie, sembra chiedere pietà ai portoni chiusi del tempio.
Povero Giangiacomo Mora, l’unico barbiere al mondo cui sia stata dedicata una strada, simbolo di tante vittime innocenti.
Accusato di aver diffuso unguenti mortali, fu condannato a esser morso da tenaglie roventi. Che gli fossero rotte le ossa con la ruota e, passate sei ore, scannato. Le sue ceneri, a futura memoria, venissero disperse nel fiume.