«Così Pechino tacque sul virus»
L’oms e i finti elogi per avere i dati
Gli elogi pubblici fatti nei mesi scorsi alla Cina dall’organizzazione mondiale della Sanità per la «trasparenza» nella gestione dell’epidemia da Covid-19 nasconderebbero in realtà un’operazione diplomatica per spronare Pechino a condividere i dati del virus e collaborare di più. I funzionari Onu in privato si sarebbero più volte lamentati per i ritardi cinesi. Lo riferisce l’associated Press che cita audio e documenti riservati.
Altro che organizzazione filo cinese, come l’aveva bollata Trump. Gli elogi pubblici fatti nei mesi scorsi dall’organizzazione mondiale della Sanità a Pechino per la sua trasparenza nella gestione dell’epidemia di Covid sarebbero stati in realtà un’operazione diplomatica per spronare la Cina a una maggiore collaborazione. Tant’è che per settimane, in privato, i funzionari dell’agenzia Onu si sarebbero invece più volte lamentati per i ritardi cinesi, riferisce ora l’associated Press, citando materiale audio e documenti riservati.
Da tempo quindi l’oms sarebbe irritata con Pechino per aver indugiato nel condividere i dati sul genoma e sulla capacità di diffusione del nuovo coronavirus: dati decisivi per una risposta efficace, specie nella fase 1 dell’epidemia.
Questa, secondo quanto ricostruito dalla Ap, la sequenza degli eventi. A dicembre alcuni dottori iniziano a notare in Cina «misteriose polmoniti». Il 27 dicembre un’azienda, la Vision Medicals, mette insieme gran parte delle sequenze del genoma del virus. Allerta le autorità di Wuhan che, in tutta fretta, interpellano Shi Zhengli, virologa responsabile del Centro malattie infettive dell’istituto di Wuhan. È il 30 dicembre: tre giorni dopo, Zhengli e il suo team completano la codifica del virus. Ma la Commissione sanitaria cinese impone il silenzio. Il 5 gennaio, altri tre laboratori cinesi completano la codifica del genoma. L’oms — mentre nuovi casi emergono in Cina e Thailandia - lamenta, in meeting interni, l’assenza di comunicazioni.
Il genoma di Sars-cov-2 viene divulgato solo l’11 gennaio, quando Zhang Yongzhen, scienziato di Shanghai, decide di pubblicarlo sul sito virological.org (fu poi punito per questo: il suo laboratorio venne chiuso). Solo a quel punto anche gli altri centri pubblicano le sequenze in loro possesso. È il 12 gennaio.
Due giorni dopo Shi manda una mail ai collaboratori in cui comunica di aver accertato la trasmissione umana del virus. La Cina inizia a riconoscerlo sei giorni dopo. Ma anche a quel punto, Pechino nega informazioni, per altre due settimane, all’oms. «Ce le comunicano 15 minuti prima di darle in tv», si lamenta il dottor Gauden Galea, il più alto rappresentante in Cina. «Si va avanti con dati minimi: troppo poco per pianificare», spiega in un incontro riservato Maria van Kerkhove, a capo del gruppo tecnico su Covid19. Solo dopo un viaggio a Pechino del direttore generale, Tedros Adhanom Ghebreyesus, il 30 gennaio l’oms dichiara quella del coronavirus un’«emergenza globale».
Il quadro fornito dalla Ap appare dunque in contraddizione sia con le affermazioni del presidente cinese Xi Jinping, che ha sempre difeso l’operato del Paese come «tempestivo» e «trasparente», sia con il punto di vista del presidente Trump, che pochi giorni fa ha annunciato la rottura dei rapporti Usa con l’oms perché «sino-centrica». All’opacità cinese fa da contraltare l’impotenza dell’agenzia Onu, che non ha poteri ispettivi sui Paesi.