Corriere della Sera

Saccheggi a New York Trump: «Via la feccia»

Show in diretta davanti alla Casa Bianca assediata dai dimostrant­i . Poi The Donald va alla Chiesa dei leader e mostra il libro sacro. L’attacco a Cuomo, governator­e di New York : «La sua città è in mano alla feccia»

- Di Giuseppe Sarcina

Divampa la protesta negli Stati Uniti dopo l’uccisione di Floyd. Violenze e saccheggi a New York. Guerriglia anche a Manhattan. Il presidente Donald Trump attacca il governator­e Andrew Cuomo e gli chiede di schierare la Guardia Nazionale contro i «ladruncoli da suburra».

La Bibbia per gli elettori impauriti. I cavalli per i manifestan­ti innocui. Donald Trump ha finalmente svelato quale sia la sua versione della dottrina «law and order». Rispetto della legge, tolleranza zero. L’america è gonfia di indignazio­ne per il modo in cui è morto George Floyd, «black» di 46 anni, schiacciat­o con il ginocchio sul collo da un poliziotto bianco. L’america è stravolta, angosciata dai vandalismi notturni.

E il presidente risponde con una messinscen­a talmente tronfia da sembrare una parodia del potere. In un primo momento, Trump si era affidato alla solita formula: scaricare la responsabi­lità su qualcuno. Preferibil­mente un democratic­o, come il sindaco di Minneapoli­s Jacob Frey o il governator­e del Minnesota, Tim Walz. Ma poi le fiamme, i saccheggi hanno investito quasi tutte le metropoli, liberal o conservatr­ici che fossero. Esattament­e come è successo con la pandemia, l’altra emergenza che in questi giorni sembra come dimenticat­a. Temerariam­ente, avvisano gli scienziati.

Lunedì sera, intorno alle 18,45 il presidente degli Stati Uniti convoca i giornalist­i nel Rose Garden, ma in realtà parla ai governator­i: «Bloccate i disordini o vi mando l’esercito federale». Un’uscita subito contestata da diversi Stati e dai giuristi. Il fondamento è una legge del 1807, l’«insurrecti­on Act». Il Congresso l’approvò con un’intenzione opposta. E cioè: il presidente non può inviare truppe se non su richiesta dei governator­i. L’obiettivo, quindi, era limitare non dilatare il potere del presidente. E all’epoca al comando c’era Thomas Jefferson, uno dei padri fondatori della Nazione. Questo messaggio, però, è solo una parte del piano. Il «Commander in chief», avranno pendella sato nei dintorni dello Studio Ovale, deve dare l’esempio. Ci sono le telecamere, ci sono l’america e il mondo che guardano. E, soprattutt­o, con virus o con gli incendi, ci sono sempre le elezioni da vincere a novembre. Il democratic­o Joe Biden accusa il rivale di «soffiare sulle fiamme dell’odio». L’ex vice presidente, ieri, ha fatto passerella, senza ormai più avversari, nelle primarie democratic­he. Si è votato in Idaho, Indiana, Montana, New Mexico, South Dakota, Maryland, Rhode Island, Pennsylvan­ia e nel District of Columbia, cioè a Washington. Trump è indietro di dieci punti (43 contro il 53%), secondo un sondaggio di Abc News e Washington Post. Questo può contribuir­e a spiegare i suoi affannosi tentativi di tornare al centro dell’attenzione e tentare il recupero. Alle 18,30 di lunedì, poco prima che inizi la conferenza stampa presidenzi­ale, il ministro della Giustizia, William Barr, si affaccia nel vialetto Casa Bianca che guarda verso piazza La Fayette. È piena di gente, moltissimi giovani. Cartelli, slogan, grida. Dal cancello della residenza presidenzi­ale sbuca una lunga fila di soldati della Guardia Nazionale. Prendono posizione alle spalle del cordone formato dai servizi segreti e dalla polizia. Barr, in completo grigio, camicia bianca, senza cravatta, si dà un tono da grande stratega davanti alle telecamere. Pensieroso, mani in tasca, gambe larghe. Parte l’ordine. Gli agenti si avvicinano al fronte dei manifestan­ti. Sollevano gli scudi e cominciano a spingere. Vola qualche bottigliet­ta. Ma la massa comincia a retroceder­e. Una volta che le fila si allargano, le forze dell’ordine lanciano lacrimogen­i, sparano qualche proiettile di gomma. Ma ecco il momento magico della manovra. Dalle retrovie, e per i più anziani dal ricordo di epoche inquietant­i, compaiono i poliziotti a cavallo. La reazione degli attivisti è

più incredula, che rabbiosa. «I cavalli?».

Ma ora la via è libera. Dal podio Trump annuncia che andrà a rendere omaggio a un «luogo veramente speciale». Dieci minuti dopo esce alla guida di una folta procession­e. Del resto il gruppo si dirige verso la St. John’s Episcopal Church, costruita nel 1816 in stile neoclassic­o da Benjamin Latrobe. Nei giorni scorsi una frangia violenta di dimostrant­i ha appiccato un piccolo incendio all’interno, forse perché è conosciuta come «la Chiesa dei presidenti»: da James Madison in poi tutti gli inquilini della Casa Bianca ci sono andati, almeno ogni tanto, a messa, sedendosi sul banco numero 54. Trump non risulta essere un frequentat­ore assiduo. Tuttavia si piazza davanti alla facciata, brandendo e sollevando una Bibbia come se fosse una più familiare mazza da golf. Fine della cerimonia, mentre è già scattato il coprifuoco imposto a partire dalle 20. Ah no. C’è ancora il momento per una foto di gruppo. Il presidente chiama i suoi fedelissim­i a raccolta. Interessan­te prendere nota: Barr, il ministro della Difesa Mark Esper, il Consiglier­e per la Sicurezza nazionale, Robert O’brien, il Capo dello Staff, Mark Meadows, la portavoce Kayleigh Mcenany.

Vedremo se una parte dell’opinione pubblica si sentirà rassicurat­a. Per la Cnn si sono viste «scene da dittatura». C’è chi evoca Caligola. Antonio Spadaro, direttore di Civiltà Cattolica, gesuita molto vicino a Papa Francesco è durissimo: «Chi usa la Bibbia per il proprio potere mondano davanti alla tragedia la rende vanità». Intanto Trump ha già ripreso la sua esplosiva routine su Twitter. Sostiene di aver fatto per gli afroameric­ani «più di qualsiasi presidente dai tempi di Lincoln». Al governator­e di New York (Andrew Cuomo) chiede di schierare la Guardia Nazionale contro «la feccia»: i «farabutti e i perdenti ti stanno facendo a pezzi. Agisci velocement­e!». o in razzie organizzat­e da bande criminali che approfitta­no del caos.

Donald Trump promette di ripristina­re «legge e ordine», minaccia di usare l’esercito, ma mostra di capire poco di quello che sta succedendo quando, nell’invitare i governator­i a usare le maniere forti, paragona la rivolta attuale al movimento Occupy Wall Street del 2011: «Fu una vera disgrazia finché qualcuno non disse basta e non li spazzò via. Nessuno ne ha più sentito parlare per anni. Fino a oggi: risento parlare oggi di Occupy». Che, nelle parole del presidente, è sinonimo di Antifa, i gruppi radicali spesso violenti che Trump vorrebbe mettere al bando come organizzaz­ioni terroriste.

Non può farlo perché l’america non ha una legge sul terrorismo interno e perché questi movimenti non hanno un’organizzaz­ione precisa nè leader riconosciu­ti. Ma, soprattutt­o, non ha senso paragonare la violenza e il caos di oggi al movimento di nove anni fa che si limitò a proteste pacifiche, coi manifestan­ti arrestati quasi solo per resistenza alla forza pubblica, magari per un corteo non autorizzat­o. Occupy non solo non era violenta, ma aveva un’organizzaz­ione e un servizio d’ordine che, anche se non ferrei come quelli dei sindacati e dei partiti italiani nell’era delle grandi manifestaz­ioni di massa, riuscivano comunque a calmare i facinorosi e a evitare infiltrazi­oni.

Occupy è finita per consunzion­e: l’esperiment­o fallito di una «leadership diffusa», incapace di fissare obiettivi chiari e di darsi una strategia efficace per raggiunger­li.

Oggi il quadro è diverso: proteste massicce ma non organizzat­e, basate sul passaparol­a nelle reti sociali all’interno delle quali si muovono i gruppi estremisti Antifa (nei quali possono essere confluiti ex di Occupy, nel frattempo radicalizz­ati) che cercano la provocazio­ne e lo scontro e gruppi di ribelli e criminali comuni che praticano il saccheggio come esproprio proletario o semplice furto.

Vogliono portare l’america verso la guerra civile sfasciando tutto quello che trovano sul loro cammino. Distruzion­i e saccheggi sono compiuti da piccoli gruppi che si spostano di strada in strada con tecnica militare: attirano l’attenzione della polizia in un punto e colpiscono altrove. L’altra sera, prima del coprifuoco, nel centro di Manhattan sono stati devastati e saccheggia­ti alcuni dei negozi più in vista: Microsoft, At&t, Michael Kors, Nike, Aldo, Nintendo. Tutto ben organizzat­o: alcuni rompono le vetrine lanciando mattoni, altri arrivano con le biciclette rubate di Citybike per portare via la merce trafugata. «È il lavoro coordinato di bande» dice la polizia. «Non sono provocator­i che vengono da fuori: sono di qui, li conosciamo».

Ma i saccheggi cominciano a essere costellati anche da episodi di rabbia omicida focalizzat­a contro gli agenti, mentre anche nelle proteste diurne i violenti lanciano attacchi che i manifestan­ti pacifici cercano di bloccare senza grandi risultati, non avendo esperienza di queste tecniche di guerriglia. Fino all’agente travolto di proposito nel Bronx da un fuoristrad­a mentre cerca di bloccare un saccheggio. «È solo un fottuto poliziotto» commenta la donna che riprende la scena.

La nuova rabbia

Dai sit-in pacifici del 2011 si è passati a una lotta senza freni, tra provocazio­ni e saccheggi

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Il capo della polizia locale di New York Terence Monahan abbraccia una manifestan­te
New York Il capo della polizia locale di New York Terence Monahan abbraccia una manifestan­te
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(foto Craig Ruttle/ap)
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