Filmare tutto I video fanno la differenza?
Il primo video diventato simbolo della brutalità della polizia contro gli afroamericani è quello del pestaggio di Rodney King a Los Angeles. Fu girato il 3 marzo 1991 da un idraulico bianco di nome George Holliday che si svegliò all’una del mattino e, con la sua videocamera 8 millimetri, riprese quattro poliziotti bianchi che colpivano più di 53 volte a manganellate un tassista nero disarmato fermato per eccesso di velocità. Facebook e Twitter non esistevano, dopo qualche giorno Holliday chiamò una tv locale e spedì la cassetta che, trasmessa dal notiziario serale, turbò l’opinione pubblica. Nell’aprile 1992, quando gli agenti furono assolti da una giuria a maggioranza bianca, Los Angeles esplose: la rivolta durò sei giorni, fece oltre 60 morti.
Da allora il ruolo dei video come prova della violenza della polizia è diventato sempre più centrale. Il filmato che mostra la morte di George Floyd per soffocamento sotto il ginocchio di un poliziotto ha fatto la differenza, secondo il reverendo Jesse Jackson, perché gli agenti avrebbero potuto mentire e sostenere che li aveva attaccati. Viene dal cellulare di una diciassettenne nera, Darnella Frazier.
Criticata da alcuni per aver ripreso la scena senza intervenire, la ragazza ha replicato che era terrorizzata.
Nel caso di Ahmaud Arbery, venticinquenne nero ucciso in Georgia da due vigilantes bianchi mentre faceva jogging, il filmato emerso sui social due mesi dopo ha segnato una svolta nell’inchiesta, ma l’uomo che l’ha ripreso è ora accusato di essere un complice. Altre volte i video della polizia, che in molti Stati è obbligata a tenere dashcam (sull’auto) e bodycam (sul corpo), hanno portato all’incriminazione degli agenti, come a Chicago nel caso di Laquan Mcdonald, ucciso con 16 colpi di pistola nel 2014. Il rapporto diceva che il diciassettenne nero si avvicinava armato di coltello, ma gli agenti furono costretti a mostrare il video: in realtà, si stava allontanando. Uno di loro è stato condannato a 7 anni di carcere.
Ma spesso i poliziotti incriminati sono stati assolti, come nel caso di Philando Castile, fermato in auto in Minnesota nel 2016 perché i fari non funzionavano. La fidanzata accanto, la figlia di 4 anni dietro. La dashcam della polizia mostra l’agente Jeronimo Yanez in piedi accanto al vei
colo, ma non quel che accade all’interno. Castile lo informa di avere una pistola, Yanez gli urla di non prenderla, Castile cerca di rassicurarlo, Yanez spara sette volte. Secondo la fidanzata, stava prendendo il documento di identità, ma la donna ha cominciato a filmare troppo tardi, quando Castile era ormai sanguinante.
Tirare fuori il telefonino è diventato uno strumento di autodifesa. L’ultimo episodio è quello dell’appassionato di bird-watching a Central Park che ha chiesto a una donna bianca di mettere il guinzaglio al cane come da regole. Lei ha rifiutato: «Chiamo la polizia. Dirò che c’è un uomo afroamericano che mi minaccia di morte». Lui non ha perso la calma, ha ripreso tutto.