Corriere della Sera

Ucciso dall’amico che lo ospitava il super teste di Piazza della Loggia

Vincenzo Arrigo era ai domiciliar­i per stalking. Nel 2015 le dichiarazi­oni sull’ex fonte Tritone

- Mara Rodella

BRESCIA Una vita perennemen­te in bilico tra lecito e illecito. Dentro e fuori dal carcere per anni, dopo i furti e non solo, salvo poi tornare in Valcamonic­a, dove era nato e cresciuto. Una vita ai margini ma anche nelle aule di tribunale, in veste di testimone «inaspettat­o» in uno dei processi più importanti per la storia di Brescia: quello per la strage di piazza Loggia, ultimo atto.

Era quella di Vincenzo Arrigo, 59 anni, ucciso a colpi di roncola poco prima della mezzanotte di lunedì dall’amico Bettino Puritani, 53, che da ottobre gli stava facendo trascorrer­e i domiciliar­i a casa sua, nel centro storico di Esine (Brescia).

Entrambi pregiudica­ti, senza un lavoro, seguiti dai servizi sociali anche solo per riuscire a mangiare. Entrambi a fare i conti con una dipendenza cronica dall’alcol e con un’esistenza difficile. Litigavano spesso, questo sì. Per le ragioni più banali. L’altra sera, per una sigaretta. «Scendi e cerca qualcuno che ce ne dia alcune da fumare», avrebbe chiesto Arrigo. «Bastano anche i mozziconi, così recuperiam­o un po’ di tabacco». Ma Puritani sarebbe rientrato a mani vuote, scatenando la furia del coinquilin­o. Di fronte alla quale sarebbe scattata l’aggression­e. «Ma non volevo ucciderlo, mi dispiace, ho dovuto difendermi» ha detto nel pomeriggio, nelle tre ore di interrogat­orio davanti al sostituto procurator­e Paolo Savio e assistito dall’avvocato Marino Colosio. Sostenendo, quindi, che quell’accetta, per primo, l’avrebbe afferrata la vittima, come dimostrere­bbero i tagli sulle sue braccia.

I carabinier­i li ha aspettati nel vicolo sotto casa, non lontano dal corpo ormai esanime dell’amico. Con i vestiti insanguina­ti e la roncola lì accanto.

Chi li conosce, in paese, racconta di un rapporto teso maturato nel disagio quotidiano, «che temevamo potesse un giorno sfociare nella violenza senza ritorno». Arrigo era in attesa del processo per stalking, dopo che per l’ennesima volta si era avvicinato alla compagna che lo aveva denunciato.

Ma lui, in aula, c’era entrato anche come super teste. Era il 23 giugno del 2015, Palagiusti­zia di Milano. Lo chiamò a deporre il sostituto procurator­e generale Maria Grazia Omboni nel processo d’appello bis, davanti alla Corte d’assise, per la strage di piazza Loggia del 28 maggio 1974: la bomba esplosa in un cestino dell’immondizia durante una manifestaz­ione antifascis­ta, che fece otto morti e oltre cento feriti. Imputati l’allora leader di Ordine Nuovo nel Triveneto, Carlo Maria Maggi (si è spento il 26 dicembre del 2018 nella sua casa alla Giudecca) e l’ex informator­e del servizi segreti Maurizio Tramonte. Entrambi sono stati condannati all’ergastolo in via definitiva.

Ed è proprio per parlare del presunto ruolo dell’ex «Fonte Tritone» (Tramonte) in relazione all’attentato, che Arrigo fu convocato dall’accusa. Anche all’epoca, stava scontando i domiciliar­i. E ai difensori che lo incalzaron­o sul motivo per il quale, dopo tanto tempo, avesse deciso di integrare

In aula

Disse che Tramonte, poi condannato, si trovava davvero sul luogo della strage

quanto già dichiarato ben dieci anni prima, lui rispose che era giusto «andare fino in fondo». Quantomeno «dopo tre infarti e un cuore che mi funziona al 25 per cento. Perché adesso non ho più nulla da perdere a differenza di prima, quando temevo per la mia incolumità». Tramonte lo conobbe nel 2001, ma fu nel 2003 — disse — che «il rapporto si fece più intenso». «Un giorno mi mostrò il suo fascicolo sulla strage di piazza Loggia». Dentro c’era anche la fotocopia di una fotografia. «Vediamo se indovini quale sono io», gli disse Tramonte. «Ecco, sono questo qua. Ero lì per guardare cosa fosse successo». Su incarico di qualcuno, ipotizzò Arrigo, che non aveva più nulla da perdere: «Mi aveva detto di essere un infiltrato dei Servizi».

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